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Tecnospurghi S.r.l.
Parole di Lorenzo Bianchi ~ Illustrazione di Andrea Innocenti
Posted in Narrazioni on 20 Gennaio 2020 24 min read
Nome in codice: Rudolph Previous Nel cuore della vecchia foresta, vicino alla montagna, presso un tronco cavo Next

L’adunata della Tecnospurghi S.r.l. è come sempre alle sette di mattina e Bernardo Scucchia se ne sta impettito a fianco dei suoi colleghi, in attesa di capire quanto liquame gli toccherà di ingoiare entro la fine della giornata. Dopo trent’anni di carriera nel ramo ha smesso di chiedersi come mai non sia ancora abituato a nuotare nella merda tutti i giorni. Se ne sta serrato nelle fila dei suoi colleghi, impacchettato nella cerata stagna color verde palude, in attesa delle istruzioni mattutine.
Il caporeparto della Tecnospurghi è un ometto nerboruto con un paio di baffetti da stupratore seriale e una fissazione per i film di guerra. Ogni mattina, al momento della distribuzione delle comande, obbliga i suoi sottoposti a disporsi in una riga ordinata e ad ascoltare le sue indicazioni maniacali, che sono dettate con rigore e voce diaframmatica. La sua arringa rimbomba nel casermone operativo della Tecnospurghi, un imponente container lamierato che si erge minaccioso ai confini della zona industriale cittadina.
«Signori, sono arrivati i dati trimestrali sulle prestazioni di squadra».
Silenzio nervoso dalle fila.
«…sono ottimi!».
Respiro di sollievo generale dalle fila.
«Abbiamo staccato la squadra degli Scarabei Indefessi di ben quattro punti percentuale, e la media delle nostre recensioni post operation è in netto miglioramento, congratulazioni!».
Educati mormorii d’assenso dalle fila.
«Di questo passo noi, le Blatte del Baccanale, scalzeremo i Gronghi di Stagno al primo posto nella classifica generale della Tecnospurghi!».
Urla e applausi dalle Blatte.
Bernardo odia questa pantomima giornaliera. In realtà non ha niente di personale contro il caporeparto Amedeo Slotti, che oltre alla possente voce da tenente militare e due medaglie olimpiche (in una disciplina non precisata) vanta una carriera folgorante nel ramo dell’igiene stradale, ma è che proprio non sopporta i discorsi motivazionali, di nessun tipo.
Il Caporeparto Slotti intanto passeggia davanti agli operai con le mani giunte dietro la schiena, le mascelle contratte, lo sguardo acceso. Si ferma di fronte a uno spilungone con la faccia da babbeo che è talmente magro che la sua cerata gli pende dalle spalle come uno straccio bagnato. Lo guarda serio.
«Signor Vacchi».
«Sì, Caporeparto».
«Le sue prestazioni sono migliorate sensibilmente, mi congratulo con lei».
«Grazie, Caporeparto».
«La sua raccolta giornaliera di liquame media è…» sfila di tasca un taccuino e volta le pagine con precisi strattoni del polso. «…dunque, sì. Settantotto litri di liquame aspirato con l’idrovora mobile e novantaquattro chili di residuo solido rimosso con la pala».
Il babbeo abbozza un cenno di soddisfazione, ma il Caporeparto lo zittisce con lo sguardo.
«Però. C’è un però».
«Sì, Caporeparto».
«La scorsa settimana, durante l’operazione Nutria, lei ha inavvertitamente rotto una tubazione diametrale che fungeva da giuntura tra un condominio e una tipografia. Ben tre – e dico tre – famiglie rispettabili, hanno denunciato sanitari esplosi e torrenti di inchiostro nero uscire dall’impianto doccia. Ma io mi chiedo, secondo lei è normale questo?».
«No, Caporeparto».
«Che non accada più».
«Sì, Caporeparto».
«Si vada a preparare ora».
Vacchi non se lo fa ripetere due volte. Fa un passo indietro e sgattaiola verso il parcheggio dove sono raccolti i camioncini nero pece marcati TecSpur.
Bernardo sospira, affaticato. Fuma quaranta sigarette al giorno da quando ha quindici anni e le arringhe mattutine del Caporeparto gli fanno venire l’affanno più della nicotina. Ha l’istinto di accendersi una cicca per farsi qualche tiro ma sa che Slotti odia il fumo e gli farebbe una sceneggiata davanti a tutti. Stringe i denti e cerca di resistere un altro po’.
Slotti riprende la passeggiata, e stavolta il discorso è rivolto a tutti.
«Ma veniamo all’emergenza odierna. A dieci chilometri da qui, nel distretto artigianale, ci sono dei lavori in corso. Gli operai, dopo la perforazione standard oltre il primo livello del manto stradale hanno trovato un vecchio condotto fognario. A quanto pare, questo condotto risale al primo dopoguerra e, da quello che ci è stato riferito, dispone di un enorme bacino a cisterna che un tempo serviva da anticamera di scolo per il raccoglimento idrico dell’impianto di quella zona. Come potete immaginare, questo bacino è colmo di ettolitri di liquame Classe A».
Timidi cenni d’assenso dalle Blatte.
Bernardo con la coda dell’occhio sbircia le facce dei suoi colleghi. Sono scure: il liquame Classe A è il terrore di ogni operatore ecologico-ambientale.
«Il vero problema è che tutte le tubazioni di raccordo di quel gruppo fognario sono marce da far schifo e l’intera struttura potrebbe crollare da un momento all’altro. È una bomba ad orologeria prossima alla detonazione. Se non interveniamo seduta stante esploderà, e un torrente di liquame spazzerà via mobilifici, falegnamerie, orafi e pastifici!».
Mormorii preoccupati dalle Blatte.
«E a quel punto cosa diremo ai nostri cari? Che dovranno acquistare divani made in Taiwan? Le vostre mogli si dovranno accomodare su poltrone cucite da qualche piscioso cagariso, è questo che volete?».
Mormorii di dissenso dalle Blatte.
«Quando i mastri orafi, vanto della nostra amata città, annegheranno nel liquame, dove comprerete i gioielli per le vostre figlie? Andrete forse in una di quelle botteghe di pakistani puzzolenti che rifilano paccottiglia di nichel?».
Vociare di dissenso dalle Blatte.
«Quando l’ultimo dei pastifici sarà sommerso dalla merda – dalla merda vera – cosa mangeranno i vostri figli al posto delle tagliatelle all’uovo? Panino kebabo?».
Smorfie disgustate e sdegno dalle Blatte.
«Kebab marcio, venduto da uno di quei beduini terroristi e stupratori?».
Dalle fila si alza una voce. «Giammai!». E poi un’altra «Col cazzo!». E poi un’altra ancora «Cammellari di merda!».
E una volta accesa la miccia, l’incendio imperversa:
«Piscia a vento bastardi!».
«Pakimerda puzzolenti!».
«Trombacammelli maledetti!».
«Allah merdoso!».
«Sbarcati figli di puttana!».
«Subumani rottinculo!».
E così via. Bernardo ha la nausea, ma non ci può fare granché. Mentre i suoi colleghi berciano sguaiati, lui controlla l’equipaggiamento in dotazione e si assicura di avere le cerniere della cerata sigillate a dovere.
«Bene!» urla il Caporeparto, per recuperare la situazione. Gli operai si zittiscono quasi subito. «E adesso, tutti insieme, il grido di battaglia!». Prende fiato, il petto si ingrossa, le vene del collo scricchiolano.
«Blatte del Baccanale!».
E le Blatte, in coro:
«Fulminei sulla preda! Fulminei sulla preda! Fulminei sulla preda!».
«Avanti allora! Abbiamo ettolitri di liquame Classe A da debellare!».
Detto fatto. La schiera delle Blatte più che rompersi si disintegra, e tutti iniziano a correre con frenesia ai loro posti. Bernardo s’affretta dietro ai colleghi verso il deposito dei mezzi. Con un piccolo slancio salta sul predellino di una delle Idrovore TecSpur e rifila un paio di manate sullo sportello. L’autista pesta duro sul clacson e sgomma verso l’uscita.
I mezzi TecSpur aggrediscono l’asfalto con destrezza. Nel tragitto dal deposito alla zona industriale riescono a creare due ingorghi e procurano quattro tamponamenti. In più, i microfoni direzionali che il comune ha istallato negli incroci per misurare i decibel del traffico registrano il record di bestemmie urlate nel chiasso dell’ora di punta mattutina.
Nel grande piazzale della zona industriale ci sono alcuni operai alle prese con una bella buca imponente, di quelle scavate per bene, con tutti i crismi. All’improvviso sentono una sinfonia nell’aria. Stupiti si guardano intorno, e notano che da est si sente un rombare di motori che si mescola alla musica. Dall’orizzonte asfaltato sbucano scintillando i TecSpur accompagnati dalla Cavalcata delle Valchirie sparata a tutto volume. Il Caporeparto Slotti, che tra le altre cose ha anche frequentato un corso di psicologia tattica militare, ha sapientemente fatto montare dei potenti impianti hi-fi sui camion TecSpur per poter sparare musica a tutto volume durante i tragitti operativi.
I mezzi inchiodano a martello e le Blatte si sparpagliano subito sul piazzale, pronti all’azione. Il Caporeparto scende da un furgone con calma, e misura il piazzale a passi scanditi.
«Ai posti».
Gli operai lo guardano un po’ incerti, poi bofonchiano qualcosa e indicano l’enorme buca scavata nell’asfalto. Al Caporeparto non serve altro, si gira di scatto verso le Blatte e con voce possente schiamazza: «Blatte, tutti pronti!».
Silenzio trepidante di respiri trattenuti dalle Blatte.
«…e azione!».
Le Blatte sganciano i tubi a risucchio dai mezzi e iniziano a fiondarle giù nella buca. La calata viene accompagnata da un marziale «Giù! Giù! Giù!» mentre Slotti osserva soddisfatto.
Bernardo invece è nella squadra degli Incursori. A loro il compito di montare (velocemente) l’impalcatura triangolare per le carrucole a motore, e poi (molto velocemente) indossare il trapezio a gancio e calarsi eroicamente nel liquame Classe A. Bernardo completa le operazioni di montaggio e subito si aggancia alla carrucola. Prima di scendere, come ogni volta, si accende una sigaretta di nascosto e tira forte. Bernardo annuisce al compagno che sta reggendo il paranco, e quello con un secco cenno d’intesa aziona la carrucola. L’erezione che arriva durante la discesa è l’unica cosa impagabile di quel lavoro infame. Non importa quante calate ha dovuto affrontare nel corso degli anni, ogni volta che scende giù il suo cazzo schizza sull’attenti e rimane teso almeno fino a quando i piedi non toccano terra o, come capita di solito, il liquame.
La calata è stranamente lunga, Bernardo è stupito. Mentre scende ispeziona la galleria con la torcia fissata sul caschetto. L’alveolo nel quale si sta calando è ampio e profondo. Si possono scorgere i diversi strati di terreno stretti uno sopra l’altro che vanno scurendosi man mano che la profondità aumenta. Probabilmente quella struttura fognaria è davvero vecchia, anche più di quello che pensava.
Giunge sul fondo. Sotto ai piedi penzolanti vede un torrente limaccioso costeggiato da due strettissimi marciapiede di cemento crepato. Con una spinta riesce a ondeggiare sopra la striscia solida e a sganciarsi al volo. Atterra con le punte sul bordo e facendo forza sui polpacci riesce ad accasciarsi contro il muro. Poi si volta e si guarda intorno. Il condotto dove è approdato è un budello stretto e tortuoso che si dipana nel buio verso ovest. Dal foro in alto calano lesti due tubi TecSpur assetati che si tuffano nel liquame e iniziano a gorgogliare. Dopo un paio di minuti approdano giù nel condotto anche altri Incursori. Bernardo riconosce Piero Scalzo e Veniero Maniàci, suoi colleghi di vecchia data.
«Ci siamo». I tre si scambiano uno sguardo d’intesa. Poi Bernardo cava di tasca la planimetria fognaria con le indicazioni. La studia per qualche attimo alla luce della torcia. «Dunque, dobbiamo seguire il condotto in quella direzione per circa mezzo chilometro e poi svoltare al bivio sulla destra. Continuando in quella direzione per un altro po’, dovremmo raggiungere il serbatoio di raccoglimento con l’ostruzione nel reparto di scarico».
Gli altri incursori si mettono a trafficare con i tubi, monitorano la situazione, ripuliscono l’area in attesa dell’arrivo degli altri. Piero tira su col naso e sputa nel torrente un grumo di catarro. «L’aria di questa sezione è strana».
Veniero si stringe nelle spalle. «Bé, è un torrente di merda dopo tutto».
«Intendevo dire che è strana anche per puzzare di merda. Non so, è come se l’umidità si aggrappasse ai polmoni… faccio fatica a respirare».
Bernardo fa per accendersi una sigaretta, ma appena la carta brucia una grassa goccia piomba dall’alto e la spegne subito. Si sfila di bocca la sigaretta e la guarda contrariato, poi sbuffando la getta nel liquame. «Era l’ultima. Vabbè. L’aria è strana, vero. Probabilmente è perché questo condotto è molto vecchio e noi siamo davvero in basso. Così su due piedi non ricordo di un’altra operazione a questo livello di profondità».
«Nemmeno io» commenta Piero.
Veniero si incammina lungo la passerella di terra, radente al muro. «Forza, andiamo. Cerchiamo di sbrogliare l’ingorgo prima che arrivino Slotti e i suoi, non ho voglia di beccarmi un’altra ramanzina dal quell’esaltato».
Bernardo annuisce. «Andiamo. Piano piano, attaccati al muro. Occhio a non scivolare, questa passerella è messa male».
I tre si dispongono in fila indiana, rasenti al muro. Un passo alla volta iniziano a percorrere il condotto buio. Le torce fissate ai caschi che hanno in dotazione sono potenti, ma quel condotto è strano. È come se l’umidità che sale dal torrente assorbisse parte dei fasci luminosi. Gli occhi si offuscano continuamente e l’aria è pesante, quasi non si respira.
Dopo una mezzora abbondante il condotto si apre e rivela una volta a botte leggermente più alta del soffitto normale, che alleggerisce la pressione sui polmoni e introduce una biforcazione. A sinistra la strada procede dritta, mentre a destra non si vede bene perché l’angolo dopo l’imbocco del condotto è stretto e probabilmente la strada si fa tortuosa. I tre si fermano e Bernardo tira fuori la mappa.
«È questo. Dobbiamo andare a destra, là» indica la via con la mano. I tre vengono inghiotti dal buio puzzolente. Seguendo il condotto svoltano a destra, poi a sinistra, e poi ancora a destra. Dopo un centinaio di metri notano che il cunicolo ha una leggera pendenza, lentamente sta scendendo in profondità.
Bernardo consulta la mappa a più riprese, la fronte imperlata di sudore e la gola chiusa: gli sembra di essere chiuso in una di quelle caverne piene di pipistrelli ai tropici. «Ecco, dunque. Superato la prossima curva dovremmo incontrare il canale principale che conduce al serbatoio di raccoglimento e poi… cazzo».
«Cosa? Oh, merda». Piero alza il capo e illumina un enorme blocco di rifiuti accatastato sul letto del canale. È una pila enorme di palta, detriti e fango.
Blocca completamente l’accesso al serbatoio.
Veniero ha il fiatone, guarda l’ostruzione incredulo. «Cazzo, questa non ci voleva. E ora che si fa?». I due guardano Bernardo, nella speranza che si inventi qualcosa per superare l’inghippo.
Bernardo sospira scocciato, poi si mette le mani sui fianchi e se ne sta a fissare quell’ammasso di schifezze con aria assorta. «Ragazzi, non c’è altro da fare. Dobbiamo tornare indietro ed avvisare gli altri. In tre non riusciremo mai a sbloccare quella pila di merda là».
Piero e Veniero sbuffano, scazzati. «E che palle però».
Mentre se ne stanno là, sconsolati, a fissare quella muraglia invalicabile, odono uno schiamazzo dal fondo della galleria. Le tenebre si rischiarono al fragore della Cavalcata delle Valchirie che rimbomba per tutto il condotto. Dall’angolo da cui sono giunti sbuca un piccolo gommone gonfiabile che fende il liquame Classe A. Sulla prua spicca il Caporeparto Slotti, piede destro sul muso del gommone e mano sinistra agganciata alla bandiera della TecSpur, che garrisce scintillando nell’aria umida e puzzolente. Lo seguono altre tre o quattro piccole imbarcazioni, tutte marcate TecSpur e ricolme di truppa operaia stipata. Il Caporeparto Slotti, che tra le altre cose ha frequentato anche un corso di psicologia motivazionale operativa, ha fatto montare delle casse anche sui gommoni gonfiabili TecSpur proprio per evenienze del genere.
«Bè, che succede qui?».
Il Caporeparto balza giù al ritmo della Cavalcata (che echeggia talmente forte da impegnare duramente i timpani di tutti gli operai) e si piazza dinanzi alla galleria bloccata, petto in fuori e gambe larghe.
Bernardo lo guarda, vagamente preoccupato. «Un’ostruzione, Caporeparto».
Slotti fissa il blocco di detriti per alcuni secondi. «Questa sì che è una bella montagna di merda» commenta, assorto.
«Che facciamo?».
Slotti si volta verso i gommoni, le Blatte lo guardano trepidanti.
«La facciamo brillare!».
Tripudio e schiamazzi dalle Blatte.
Subito alcuni uomini s’adoperano per scaricare una cassa di legno sigillata. Bernardo sgrana gli occhi e dice «Caporeparto! È sicuro di quello che dice? La struttura di questi condotti si regge con lo sputo, pensa davvero sia il caso di…».
Slotti lo interrompe subito. «Scucchia, stia al suo posto. Obbedisca alle istruzioni e non faccia storie, l’analisi dei rischi sul campo è la mia specialità».
«Ma, Caporeparto…».
«Basta storie!» poi, rivolto alle Blatte: «Scaricate la dinamite!».
«La dinamite!? Ma è pazzo?».
Slotti non gli risponde neanche. Le Blatte brulicano giù dai gommoni e trascinano la cassa sul marciapiede laterale. Fanno saltare il coperchio con una spranga e iniziano a collocare la dinamite nell’intelaiatura del muro di spazzatura.
Bernardo è allibito, fissa i suoi colleghi imbambolato. Lo sguardo di Slotti brilla sinistro, sembra in preda a una furia cieca. Quando le Blatte collegano tutti i cavi tra un blocco esplosivo e l’altro, lui alza un pugno al cielo e impone il silenzio nella galleria.
«Blatte, a me il detonatore».
«Tutti ai posti?».
Mormorii d’assenso dalle Blatte.
Bernardo e i suoi due colleghi se ne stanno radenti al muro, agghiacciati. Veniero inizia a pregare la madonna sottovoce. Piero si nasconde il volto tra le mani.
«Azione!» e pesta sulla leva del detonatore.
…Clic!
«Mh? Che succede?
…Clic! Clic!
«Non funziona…».
«Caporeparto, magari non ha spinto in fondo la leva…».
«Massì che l’ho spinta fino in fondo. Io spingo sempre fino in fondo».
…Clic! Clic! Clic!
«Porca troia! Vaffanculo! ’Sta scatoletta di merda!».
«Caporeparto, la prego si calmi…».
«Calmo un par di balle! Cazzo! ’Sto innesco del cazzo dev’essere fissato male!».
«Caporeparto, cosa fa!? No! Non così! Non tiri il rocchet–».
KA-BLAM!!
Il muro salta in aria con uno schianto assordante. Una voragine si apre sotto il condotto e inizia a inghiottire qualsiasi cosa. Il Caporeparto Amedeo Slotti viene sbalzato via dall’onda d’urto dell’esplosione e finisce nel torrente di liquame Classe A che sta precipitando a cascata nell’enorme buco creatosi sotto il blocco di detriti.
Qualcuno urla «Caporeparto!».
Slotti arranca boccheggiando «Gourgh! Blatte, in alto la bandiera! Bleurgh! Fulminei! Gagh! Sob! Fulminei sulla preda!» e sparisce giù nella cascata, travolto dal liquame Classe A.
Poi scoppia il parapiglia. Le mura iniziano a tremare, dal soffitto piove polvere e altri detriti. Alcune Blatte incespicano e vengono inghiottite dal torrente mentre altri, più fortunati, riescono a rimanere aggrappati ai gommoni o al lembo di marciapiede. Il liquame schizza da tutte le parti inzaccherando tutti. Le casse portatili dei gommoni scricchiolano sotto alle macerie e la Cavalcata delle Valchirie gracchia metallica quasi uscisse da una radiolina rotta. Urla coprono altre urla, massicci detriti iniziano a cadere dal soffitto del condotto.
Bernardo si fa strada come può attraverso la bolgia. Riesce a saltare su un gommone non ancora affondato e si lancia di nuovo sul marciapiede. Riesce a divincolarsi da un abbraccio fangoso, calcia via una mano verde palude che si era aggrappata alla caviglia, schiva un grumo di terra che fionda giù dal soffitto… poi scivola, batte la testa e finisce nel torrente.

Respira. Respira ancora. È steso faccia nel fango a braccia larghe. Con un gemito punta i gomiti a terra e si tira su. Ha qualcosa in gola. Qualcosa in gola che si muove. Vomita fuori una bella scarica di liquame Classe A nel quale sguazza felice una blatta color mogano. Rabbrividisce dallo schifo. Dove si trova? Riesce a girarsi sulla schiena e a gettare un’occhiata al soffitto. Vede una volta enorme, altissima e tappezzata da un mosaico di colori ormai stinti che un tempo dovevano essere accesi e brillanti. Il casco è al suo posto, e con un paio di manate la torcia si riaccende dopo qualche sfarfallio.
Sembra un terminal abbandonato di una di quelle linee metropolitane che si vedono nei film. Ma non ci sono binari, né treni, né negozi. È in una radura di macerie sottoterra, lontano dalla luce del sole. Si alza traballante, gli fa male la schiena e la nuotata nel liquame non è stata una bella esperienza; si ricorda solo di essere scivolato e poi giù nel torrente e poi… Come ha fatto? Come ci è finito in questo posto? Non è il bacino idrico che stava cercando la sua squadra, è molto più in profondità.
«Ti sei svegliato».
Bernardo sobbalza e si gira di scatto «Chi è?».
«Non avere paura». La voce sembra provenire da un cumulo di macerie poco più in là.
«Non ho paura». In realtà un po’ ce l’ha, cerca solo di non darlo a vedere. «Chi sei? C-come sono finito qua sotto?». Cauto si avvicina al cumulo.
Da un armadio scassato e pieno di muffa sbuca un nanerottolo barbuto vestito di stracci che gli si para davanti.
«Oh, cazzo!».
«Ti sei svegliato, Bernardo».
Il nanerottolo ha una barba incolta e i denti marci, eppure gli occhi brillano divertiti e la voce roca è in qualche modo conciliante. Sarà alto un metro e mezzo, a dir tanto, e per camminare si appoggia a un piccolo bastone nodoso.
«Chi sei? Come sai il mio nome?».
L’altro sorride. «Un bel casino lassù con la squadra, vero?».
Bernardo si ritrae. «Come fai a sapere della squadra? Cosa ci faccio qui?». Si guarda intorno, e non vede altro che macerie, rottami e detriti; è in una discarica a cielo chiuso, in pratica.
«Ti ho ripescato dal Fiume, quasi annegavi nell’acqua».
«Che fiume? Vuoi dire… il torrente di liquame?».
Il nanerottolo fa una smorfia «Che brutta parola… liquame. È pur sempre acqua. Un po’ sporchina forse, sì. Ma pur sempre acqua».
«Mi hai salvato tu?».
«Come ho detto, stavi per annegare e ti ho portato qui».
«Ma… quanto siamo lontani dal punto dell’esplosione? L’hai sentita vero? Come faccio a risalire?».
Il nano pare dispiaciuto «Te ne vuoi già andare?».
«Bè… sì, in effetti. E poi non mi hai ancora detto chi sei».
«Sono una persona, come te. I nomi non vogliono dire granché» alza le spalle. «Vieni con me, c’è una vecchia scala con cui potrai tornare su in uno di quei condotti che portano in superficie» e si incammina.
«Ehi, aspetta un attimo!». Bernardo si guarda intorno, poi allunga il passo e si mette a camminare a fianco a lui. Il nano imbocca una strettoia sulla destra che sfocia in un altro piazzale sotterraneo simile al precedente. Detriti e macerie ovunque, grigi, senz’anima.
Bernardo inciampa in qualcosa e quasi casca faccia in avanti. Riesce a recuperare l’equilibrio e guarda in basso. Ai suoi piedi c’è un cavalluccio a dondolo di legno, sporco e rotto in alcuni punti.
«Ma… ma cosa ci fa questo qui?».
«Mh?». Il nano si volta e lo guarda. «Qui è pieno di quella roba, non te ne sei accorto?».
«Quale roba? Io vedo solo macerie…». Bernardo alza lo sguardo rimane a bocca aperta. I detriti fangosi e scalcinati hanno acquistato colore e forma. Dove prima c’erano pezzi di cemento fangoso, adesso vede rottami, paccottiglia e cianfrusaglie varie di ogni forma e dimensione. Ci sono cumuli di specchi infranti, piccole culle a rotelle di legno rotte, mazze da golf, palloni da calcio e da rugby, lavatrici e chi più ne ha più ne metta.
«Prima non c’era tutta questa roba!».
«Sì che c’era, non ci avevi fatto caso».
«Ma cos’è?».
«È solo roba, come dici tu» risponde il nano. «Guarda pure, non ci corre dietro nessuno».
Bernardo pesca da un cumulo di cianfrusaglie un album di fotografie, lo sfoglia un po’ e vede facce sorridenti e acconciature fuori moda. Si gira e trova un vecchio comò scassato che contiene libri di viaggi e vacanze in posti esotici. Sulla destra c’è una pila enorme di coccarde da appuntare al petto con inciso sopra il numero “1” in caratteri che un tempo dovevano essere stati dorati. Quasi senza accorgersene si ritrova un piccolo veliero di legno e corda; un modellino bellissimo. Gli si stringe il cuore. È identico a quello che si era fatto regalare per il compleanno quando era piccolo, che meraviglia. L’aveva desiderato con tutte le sue forze e alla fine, dopo mesi di piagnistei, i suoi genitori lo avevano accontentato. Sente gli occhi lucidi.
Un momento. No, un momento. Quel veliero è identico a quello che voleva a tutti i costi da piccolo, ma… ma i suoi alla fine gli avevano regalato una confezione di matite e pennarelli colorati.
Bernardo mostra il veliero al nano, come a chiedere spiegazioni, mentre l’altro lo guarda con aria divertita.
«Cosa c’è, ti ricorda qualcosa?».
«Questo veliero…». Bernardo gira il modellino e sul fondo della carena c’è inciso “Bernardo S.”. «Ma non posso essere io».
«E perché no?».
«Perché non me l’hanno mai regalato».
«E quindi?».
«Come e quindi?».
Bernardo viene colto da un fremito. Si infila il modellino in tasca e cerca ancora nel cumulo. Trova uno schedario di metallo, pieno zeppo di certificati di nascita. Ne tira fuori una manciata e li scruta. Sono rosa o blu, e sono tutti molto simili: nome di un bimbo, maschio o femmina che sia, con sotto scritto a chiare lettere “nato sano”. Ma non ci sono date, né luoghi.
Adesso sta iniziando a spaventarsi, le mani tremano. «Come ci è arrivata tutta questa roba quaggiù? Ce l’hai portata tu?».
Il nano lo guarda con aria assorta, si gratta la barba alcuni istanti. «Io non ho portato proprio niente. Non so bene da dove venga, in effetti. L’unica cosa che posso dirti, ora che mi ci fai pensare, è che tutte queste cianfrusaglie sembrano comparire col tempo. Da sole. Sono talmente tanti anni che vivo qui sotto che quasi non ci faccio più caso, però in effetti nei primi tempi non c’era così tanta roba…» sembra voler aggiungere qualcosa, ma si blocca. Recupera il sorrisetto scanzonato e si infila un dito nel naso. «Non so che dirti, sembra quasi che queste cose appaiano e basta».
Bernardo deglutisce, stringendo forte il veliero in tasca. Lo tira fuori e lo guarda. Sembra vero.
Annuendo ricaccia indietro le lacrime e posa la mano sulla spalla del nano. «Ho capito. Adesso andiamo».
«Come vuoi, però mi spiace che te ne vai già».
«È stata una giornata pesante».
«Sì, sì. D’accordo».
I due arrivano davanti a un grande muro diroccato, dove funghi e vegetazione scura crescono fuori dalle crepe. Fissata al muro c’è una scaletta rugginosa a pioli che si perde verso l’alto. Non si vede la fine.
Il nano la indica con un cenno. «È più corta di quanto sembri da quaggiù. Basta avere un po’ di pazienza. Stai attento a non scivolare…».
«Sì, ho capito».
«Bè? Che fai? Non vai?».
Bernardo è rimasto fermo di fronte alla scala. Allunga una mano e la tocca, come ad assicurarsi che sia vera. Poi si gira verso il nano.
«Forse rimango un altro po’, giusto per riposarmi un po’ prima di risalire. Sai, è stata davvero una giornata pesante».
Il nano sorride. «Sicuro?».
«Sicuro».

di Lorenzo Bianchi

Illustrazione in copertina di Andrea Innocenti


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