Fa male, se cammino. Aspetta. Piano, aspetta. Guardati; come ti sei ridotta. Come ci sei finita qua?
Appena ci vede in faccia alla televisione o a fare le sceme, mentre se ne va sul balcone con una bacinella piena di panni o lava a terra, Ma’ dice Ce la vogliamo dare una mossa? E questa inizia a spazzare, quella a truccarsi e quell’altra va a fare la spesa, e le più piccole, come me, danno una pulita qua e là, giusto a fare le mosse, o giocano per le scale della palazzina, o nel vicolo, con la palla, con le bambole. Te ne vedi una nuova, ogni tanto, e una più vecchia va via e non torna più. Come La Sora. Lei è più grande di me.
Hai gli occhi miei, mi dice sempre. Noi siamo come sorelle, è vero?
La mattina mi sveglia e mi dice di andare a fare la colazione che mi prepara, come piace a me, con i biscotti al cioccolato, buoni… E il latte bollente, e ce ne stiamo a dare una mano a Ma’. E se il pomeriggio non esce per andare non so dove, vediamo la televisione. Allora m’accarezza e mi pettina i capelli. Mi fa sempre ridere.
Me ne devo andare, mi dice, un giorno. Ha un sorriso triste.
Ma poi torni?
Sorride triste, e mi prende la faccia tra le mani e mi dà un bacio sulla fronte. Ci fissiamo, e una mosca mi ronza nell’orecchio e mi fa saltare all’aria, e ridiamo e m’abbraccia.
Due giorni dopo, come mi sveglio vado da Ma’: E La Sora?
Se n’è andata, dice Ma’. Lo dice senza guardarmi.
Devi iniziare a svegliarti da sola e a svegliare quelle più piccole.
Dov’è andata?
E a te che te ne frega?
Ma’ mi guarda male, e fa Con un amico del Signore, sta bene.
Il Signore. Te lo vedi spesso un po’ prima di pranzo. Se ne viene sempre con qualche compare. In casa aggiusta qualcosa qua e mette un mobile nuovo là e grida a quello di finirla, a quell’altro di muoversi. E ride. Sta sempre a ridere, con quella risata che non so dire, brutta, e pure bella, fa paura, ti fa ubriacare. Ogni tanto un compare gli parla basso all’orecchio e lui ficca una mano in tasca, ci fruga, e si passano qualcosa, dei sacchetti, non so. Lo fa pure con Ma’. E scherza con le femmine e fa l’occhiolino a una e abbraccia un’altra. E si siede alla tavola grande del soggiorno a mangiare, con qualche suo compare e me, Ma’, le altre femmine e pure qualche piccinino, qualche vecchierello, figli, padri di non si capisce più chi, sempre gli stessi e sempre con qualche faccia nuova. È tutto una baldoria.
È da un po’ che il Signore mi guarda fisso e mi fa un sorriso strano, ogni volta che mi vede, e ogni tanto mi dà una carezza. Poi un giorno se ne viene con la Sora. Non la vedo da un sacco.
La So’?
Ehi, dice. Mi fa sì e no un sorriso e se ne va dietro al Signore. Sto tutto il tempo a farle il muso e, se mi guarda, mi fa un mezzo sorriso, che non capisco, che mi fa male. Sta piena piena di anelli, e bracciali, e ha la minigonna stretta e i tacchi alti, ed è tutta truccata. Ha gli occhi diversi. Di chi ha la febbre. Se ne va dietro dietro al Signore, e un giorno, dopo che lui mi dà un pizzicotto sulla guancia, se lo mangia con gl’occhi e grida Ma vaffanculo, e s’allontana svelta, inciampa sui tacchi alti, e si sbatte dietro la porta.
Mo torna, dice subito Ma’ al Signore, Poi parlo io con lei, statti tranquillo.
E la sento, una mattina, come mi sveglio. Litiga con La Sora.
Mo te le devo dare con la mazza, grida, Disgraziata!
E vado a fare colazione e la vedo, La Sora, che se ne esce di casa, di corsa. Vieni qua, grida Ma’, Vieni, maledetta!
Poi il Signore continua a sorridermi, ad accarezzarmi, e inizia a regalarmi delle bambole, dei vestiti.
Come si dice al Signore? fa Ma’, e io Grazie.
Sorridi, dice Ma’, e io faccio un sorriso, ma non ho voglia.
Un giorno dico a Ma’, Ma’, chi è quello?
Il Signore.
Sì, ma chi è?
Questa casa, con tutto il resto, ce l’ha data Il Signore. È lui a mantenerla. Lui c’ha la testa. E ci vuole bene.
A volte guardo un libro, vecchio, bello, un bel libro di favole, con i disegni e le parole, che mi piace indovinare perché non so – non so leggere. C’è una favola, che mi piace più delle altre: una con delle lucciole che di notte si tirano a capelli per prendere la luce di un lampione, e poi una lucciola sparisce, e le altre scoprono che, la mattina, quella si mette sopra al lampione spento e fissa il cielo, e la prendono in giro, e poi un’altra si mette vicino a quella lucciola, e una dietro l’altra la seguono tutte e poi tutte insieme fissano il cielo e poi iniziano a volare verso il sole e si danno un mano, e si abbracciano e continuano a volare, felici.
Ma’, che sta scritto qua?
Non lo so. Poi chiedi al Signore.
Signore, gli dico, come lo vedo, Che sta scritto qua?
Me ne sto sulle scale della palazzina, a guardare la favola.
Che sono scemi, dice, Stavano meglio prima. Dice così e ride brutto. Ci dà solo un’occhiata, alla favola, solo una, e mi guarda fisso in faccia e me l’accarezza piano ed entra in casa.
Poi Ma’ comincia a truccarmi.
Devi imparare da sola… Prima il rossetto… Una ditata, così, e le labbra sembrano uno spacco di fiorone. Beh, vedi che sono belle? Sei bella assai e sarai la preferita del Signore.
La preferita?
Eh, così ti sposa, e poi stai bene a vita.
Sposa?
Eh, devi essere una bella sposina. Però devi fare la brava.
Una mattina vado al mercato. Ci vado quando non possono le altre. È una bella mattina con un bel frescolino. Mentre aspetto che il fruttivendolo finisce con gli altri, vedo un uomo con un bel sorriso e una bambina allegra, seduta sulle sue spalle, e a braccetto con lui una donna, anche lei allegra. Lui sta parlando con qualcuno, là, vicino alla bancarella. Dice che si sono sposati da poco. Sembrano felici.
Oh, chiudi la bocca, mi dice il fruttivendolo, Ché entrano le mosche.
Il fruttivendolo ha un sorriso storto e gli occhi che si muovono veloci, dai miei in giù, si muovono sul mio corpo, su, giù, e poi si fermarono sui miei occhi.
Quanti anni hai? mi fa.
Boh.
Come ‘boh’?
Tredici… Non lo so.
Un giorno glielo chiedo, a Ma’, quanti ne ho, e senza guardarmi lei mi dice dodici, e subito dopo tredici e dice che quando mi avevano portato da lei, cioè dieci, undici anni fa, potevo averne tre, e le dico E prima?
Ancora con ‘sto ‘prima’, dice e mi guarda male. Mi guarda male ogni volta che parlo del passato, mio o suo.
Così m’ha detto Ma’, faccio al fruttivendolo.
Chi?
E m’ha detto di dirti che mi manda Il Signore.
E il suo sorriso sparisce.
Il?
Il Signore.
Ah… E il fruttivendolo ride finto, e fa Mo, da quanto non lo vedo! Digli che ha detto il fruttivendolo di farsi vedere, qualche volta!
E ora c’ha un sorriso tutto tirato e dà palpatine alle pere, alle mele, serio, scuro in faccia, e giro la testa e non li vedo più, quelli allegri, che sembravano felici.
Per il Signore, solo le più belle! fa il fruttivendolo, e mi allunga la busta con la frutta, sorride finto.
Me ne torno a casa e penso a quelli che si sono sposati da poco. Poi, mentre metto la frutta nel cesto, in cucina, la più piccola di noi beve un bicchiere d’acqua. Sta da poco, a casa. Ha sì e no tre, quattro anni, e me l’abbraccio dopo che metto l’ultima mela a posto. L’abbraccio forte e me la sbaciucchio tutta, e quella un po’ si storce, ché se ne vuole andare a giocare, un po’ ride, e allora mi vedo, là, nel vetro del forno. Ci sto vicino, in ginocchio, e abbraccio la bambina e la sbaciucchio e rido e vedo il mio sorriso, e mi sembra uguale a quello dell’uomo e della ragazzina sulle sue spalle e della donna a braccetto, e allora la stringo più forte, la bambina, e la bacio ancora.
Quanto sei stata fuori? mi chiede Ma’, che ci guarda. È rientrata dal balcone e sta dando una sbattuta alle robe.
Ma’, il fruttivendolo m’ha chiesto quanti anni hai, e io-
Non dar retta. Non dire niente. E non stare assai fuori; lo sai che Il Signore non vuole.
Poi corro al mercato. Allora per la prima volta vedo il vecchio. È vestito come a lutto. Ha gli occhi strani. Mi fissa e sorride appena, con un sorriso che mi sembra tremare, sembra un pianto e una risata. Allora mi chiede se abito là, in quella via. Io faccio per andare avanti, e quello dice Ci andava anche mia figlia.
Mi volto e lo guardo, e lui continua E a scuola ci vai?
Ma chi sei? gli chiedo.
Mi guarda strano.
Sei bella, come lei… dice.
Io non dico più niente e me ne vado, e quando mi giro in fondo al vicolo lui sta ancora là, dove stava, che mi fissa.
Poi lo trovo di nuovo, al mercato. Mi guarda come la prima volta, con quegli occhi strani, e mi sorride.
Tieni, dice, e mi mette una mela nella busta.
Me ne vado, e poi lo trovo ancora, sempre al mercato.
Te li hanno regalati?
Ho i pantaloncini di jeans, nuovi. Me li ha dati Il Signore.
Il vecchio me li fissa, e ora non sorride, e il fruttivendolo lo guarda male e mette le banane nella busta, e il vecchio mi guarda i pantaloncini, con uno sguardo strano, e me ne vado, e sento freddo, e poi mi giro, e lui là, fermo, in mezzo alla baraonda, vicino alla bancarella, mi fissa, e sento freddo.
Faccio un altro passo, anche se fa male. Fa più male se sto ferma. Nel bagno dell’ospedale. Sto in ospedale. Non cammino da – quanti giorni sono? La mia faccia, là, nello specchio, senza un filo di trucco…
Mi sto truccando. È un bel pomeriggio, caldo. Me ne sto seduta sul gradino fuori del portone, e faccio chiacchiere con le altre. Ti voglio bene. Anch’io amo’… Ti piace la gonna? No, me l’ha presa quello di ieri… Ue’ la puttana, la vuoi finire di parlare alle spalle? Sì, m’ha detto che mi vuole portare con lui, alla casa in montagna… Marina incinta?… Ho saputo che Teresa s’è ammalata. Uh, che peccato… ecco che fine aveva fatto…
I maschi giocano a pallone, nel vicolo, bevono, fanno casino, e ci guardano. Ogni tanto s’avvicina qualche scemo e dice a una che è bella. Come sei bella. Complimenti. Vuoi venire? Se qualcuno lo fa con me allora arriva sparato uno con gli occhiali scuri e una sigaretta – è un compare del Signore – che se ne sta tutto il tempo appoggiato al muro in fondo al vicolo, e dice Vattene da qua. E chi ci ha provato sparisce senza fiatare, e se fiata non lo fa per molto.
Poi arriva Il Signore, e i maschi non mi guardano più se non come per sbaglio. Lui mi sorride e mi fa una carezza.
Vuoi venire con me? dice, Ti devo dare un regalo. Ce ne andiamo in una bella macchina e dopo nemmeno cinque minuti arriviamo a casa sua. È una palazzina vecchia vecchia. Sta un ragazzo, sulle scale, che pare mezzo addormentato, con la testa appoggiata al muro e le braccia abbandonate in mezzo alle gambe. Tra le sue scarpe c’è una siringa. Allora il signore lo tira su dal collo e lo caccia dal portone.
Non qua! grida. Quante volte ve lo devo dire?
Che cos’è quella? gli dico, indico la siringa, e lui mi stringe con un braccio e dice Non è niente. E sorride.
In cucina ci stanno un sacco di uomini. Giocano a carte, scherzano con delle donne mezzo svestite, e una dorme sul divano, in soggiorno. La casa è bella e grande.
Qua, vieni, dice lui, ed entriamo nella sua camera. Pare una bancarella del mercato. Chiude la porta a chiave.
Mi fa stendere accanto a lui, sul letto. Il letto è tutto sfatto, odora come i cani randagi.
Qua… E Vieni!
Ride brutto.
Ti piace? mi chiede.
In mano stringe una collana, di perle, dice lui, e la mette sul comodino vicino al letto.
La vuoi?
Comincia a baciarmi. No, gli faccio. Mi tiro indietro, e lui mi stringe, inizia a respirare affannato. I suoi occhi sono tutti scuri. Sembrano sporchi.
La vuoi, la collana, o no?
Inizia a spogliarmi. Mi fa girare.
Piano. Mi stai facendo male. Piano, dico, e lui fa più violento.
Mi sforzo di vedere la collana lì davanti sul comodino.
Poi lui mi dà un bacio forte sulla guancia bagnata di lacrime e ride, come ride lui, prima di mettermi la collana al collo.
Ogni volta che ci vado, a casa sua, mi fa trovare un regalo, mo una pelliccia, mo un anello o gli orecchini o le scarpe col tacco.
E il vestito da sposa? gli chiedo, una sera.
Lo sai… Sto mettendo i soldi da parte.
Lo guardo. Lo guardo, e lui guarda la televisione.
Me lo giuri? Oh, di’: me lo giuri?
Essì!
Guarda la televisione.
L’avevi detto anche l’altra volta.
Poi il ciglio sta sul mio polpastrello, e gli dico Mettici il dito, sul mio, e lui lo mette, e mi dà un’occhiata distratto e torna a guardare la televisione. Vai, gli dico, togli, e il ciglio resta appiccicato sul mio dito, e ci sbarro gli occhi sopra, e fa un mezzo sorriso, lui, e torna a guardare la televisione. Allora mi sposi, dico. Gli occhi sbarrati, sorrido e lo guardo. Alla televisione fanno vedere una lucciola che attira e si mangia altre lucciole. Lui sta disteso sul letto accanto a me, a pancia in giù, nudo.
E il vestito, quando lo prendiamo?
Quello che hai visto in televisione? dice distratto, senza guardami.
Sì, quello semplice. Che bello, è vero? Bianco bianco e semplice.
Mo, tra poco.
Giuralo.
E t’ho detto di sì, t’ho detto.
Guardami negli occhi.
Me li guarda appena appena e fa quella sua risata, e dice Ma non devi andare con gli altri, come fanno le compagne tue. E fa per darmi un bacio, e mi tiro indietro.
Come?
Se no t’ammali pure tu, e niente figli. E niente vestito.
Lui torna a guardare la televisione.
Eh?
Quando non ci sto io, vai con gli altri?
Ma che stai a dire?
Non capisco. Non voglio capire.
Poi quella volta, a casa sua, mi sta dicendo basso all’orecchio di chiederlo agli altri, qual era il suo nome, e io dico Eddài, di’.
Lui fa la faccia brutta e mi guarda fisso negli occhi e dice Ih… Allora sei scema.
Il tuo nome non è ‘Il Signore’ faccio, e lui ‘No’ dici tu? E mi stringe la faccia con una mano e m’appiccica le labbra sulle mie, forte, come fa sempre quando scanso i suoi baci, e allora scuoto la testa e la giro dall’altra parte e chiudo gli occhi, e lui ride, come fa lui.
Il vento entra dalla finestra schiusa.
Fa freddo; puoi chiudere la finestra?
Fa caldo, dice e mi guarda e ride basso.
Sei o no tutta mia? mi sospira nell’orecchio, me lo sfiora con le labbra.
Ma vattene…
Sento il vento, il suo sospiro, e lui ride. Ride come fa lui.
Sei mia o no?
Mi sfugge un sorriso.
Sì o no?
Mh.
Eh… fa lui, e lo guardo.
Lo vedi allora, che sono il tuo Signore.
E proprio mentre lo sto mandando a fare in culo, e lui ride, Puttana, grida un uomo in cucina, e una femmina urla, e allora lui s’alza veloce e si mette i jeans di fretta ed esce di corsa dalla stanza e subito dopo sento un urto, forte.
Che hai deciso? grida lui, e una femmina piange, e la voce di prima, che doveva essere uno dei suoi compari, fa Glielo devi dire a questa lurida!
E sento di nuovo l’urto e una bottiglia che si rompe, e qualcun altro grida Basta, basta! Statti tranquillo mo.
Mi vuoi far perdere i soldi? grida lui. Le mani addosso a queste non le dovete mettere!
Ogni tanto ce ne andiamo a fare una pizza, una camminata, da qualche parte, il solito, io, lui, i suoi compari e qualche femmina. Come quella sera, quando ci facciamo una grigliata vicino al mare, e i maschi se ne stanno a fare chiacchiere sull’ultima schedina persa, per quella squadra, sempre quella infame, e ci stanno due femmine oltre a me: una, ubriaca, ride sempre, sguaiata, e l’altra non dice una parola e guarda la griglia, le gambe nude, strette nella minigonna. Io sento l’odore del mare, fresco, e il suono delle onde, e qualche lampione ci brilla qua e là, vicino alla riva, bella… E la guardo, e il signore mi stringe e bacia forte, sulla guancia, sul collo, e cerca la mie labbra, e mi dice basso all’orecchio Poi ti devo fare un bel regalo, e ride, e allora io mi sento come allegra. C’è un bel fresco, e mi piace il suono dell’onde, e le guardo, e lui mi bacia e mi prende la faccia e mi dice La più bella sei tu, e ride, La più bella sei tu, e sento il vento, il suo sospiro.
Una volta mi lascia vicino a casa, e come s’allontana mi giro.
Ciao.
È di nuovo il vecchio. Ha sempre la stessa faccia e gli stessi vestiti e una busta della spesa piena appesa a una mano, e io vado avanti, e lui fa Mi dài una mano? Non abito lontano.
Io vado avanti e dopo un po’ mi giro, perché lui dice Lo faceva pure mia figlia…
Mi fissa e resta là, in fondo al viale, mentre io vado avanti, e mi dice, non capisco bene, Puoi aiutarmi, aiutarti, o Posso, e io, tra me e me, Ma che vuole quel matto? E me ne vado.
La mia faccia, senza nemmeno un filo di trucco. Fa’ un altro passo. Muoviti e fa’ un altro passo!
Era notte, e lui t’ha gridato Alzati. Alzati e cammina, muoviti.
La pioggia faceva tremare i lampioni nelle pozzanghere, e il vicolo era una lunga lacrima di mascara, e la pioggia ti rovinava tutto il trucco, la pelliccia, i capelli, e sul bagnato le macchine davano un rumore di carta stracciata piano, maledetto, e tirava il vento forte, freddo, che freddo, e tremavi, maledetto, e piangevi e il vicolo era buio e ti sei appoggiata al muro freddo, bagnata, tremando, e piangevi e camminavi svelta, tremavi, ti voltavi, ti stringevi e hai cominciato a correre, e la caviglia ha dato una scossa. Sei inciampata. Maledetto, e piangevi, in ginocchio sul marciapiede duro, viscido, la faccia nelle mani, piangevi, non piangere scema, maledetto e bastardo, altro che vestito. La caviglia faceva male, e pioveva, e poi hai sentito la stretta al braccio.
Alzati.
Era lui. Stringeva, tirava il braccio.
Alzati e cammina, muoviti.
E t’ha portato a casa in macchina e non t’ha detto una parola, e non gl’hai detto una parola. Piagnucolavi.
Il giorno dopo te ne stavi nella stanza grande, nel letto grande, non come quelli stretti stretti dell’altra stanza, dove eri cresciuta e dormivate in due, tre femmine nello stesso letto, quando eravate assai, e c’era un calore buono. Ma lui t’ha detto che ora doveva essere tutta tua, quella grande. Ci stavi da quando lui t’aveva detto che eri la sua preferita.
Pazienta, ti fa Ma’. Ti bagnava la fronte bollente con la pezza bagnata d’acqua fredda.
Me l’ha detto a me, che vuole dei figli da te… A te ti sposa davvero.
Tossivi forte e facevi fatica a tenere gli occhi aperti.
Stava con un’altra, hai detto. Sotto a casa sua, nel-
Chi?
Lui, lui, nella sua macchina, li ho visti. Li ho visti, dicevi. Gli volevo fare una sorpresa e que-
Ma’ ti zittiva.
Stavano abbracciati, e ho dato un calcio alla macchina e sono scap-
Ti zittiva, Shhh… Devi avere fede, t’ha detto. Pazienta. Non farlo arrabbiare, e poi vedi che sceglie te. Sceglie te, perché sei la più bella. Vivrai come in paradiso.
Piangevi.
Era la stessa dell’altra volta.
Chi?
Era venuta l’altra volta. A mangiare. Io ero andata in bagno e quando ero tornata l’avevo visto, a lui, che aveva dato un pizzicotto sulla guancia, a lei, e sorrideva e-
La vuoi finire mo? Ché se ti sente s’arrabbia.
E io me ne vado.
Sì? E dove devi andare? Eh? Che devi trovare, là fuori? Chi ti devi prendere? Vai, vai!
Piangevi, e poi lei, A chi mai le ha regalate, quelle?
E ha preso le tue scarpe col tacco e ha cominciato a muoverle piano piano in mano, senza smettere di guardarle. Devi dire grazie…
Allora le hai detto Ma’, tu mi vuoi bene?
E Ma’ ha fatto una risata che non t’è piaciuta. Vattene va’, la scema! Basta piangere, ché ti rovini il trucco!
Poi lui è venuto e t’ha detta le cose belle e poi l’ha rifatto, e hai pianto, e t’ha detto di nuovo le cose belle, e poi tutto da capo. E poi di nuovo, tutto da capo. Quante volte… Quante volte…
E poi era scuro, quel pomeriggio. Sentivi l’odore d’arrosto, lo scroscio, lo sfrigolio della pioggia, dei fornelli, e te ne stavi nel letto. Appena fuori della stanza Ma’ si dava da fare col cucinino, e sulla porta bianca, ch’era aperta, c’era l’ombra di lei. Poi ti sei svegliata con uno spavento. Lui ti s’è stravaccato accanto, e ti sei rannicchiata sul bordo del letto. Lui ti fissava, lo sentivi, da dietro, e ti diceva Non era nessuna, e ti baciava sulla fronte, sulle guance. E piangevi e dicevi Sì, come quell’altra. Ma vattene…
E lui, Non abbiamo fatto niente.
E ha succhiato una canna e te l’ha avvicinata alla bocca, e t’ha sbuffato il fumo in faccia e t’ha detto Prova.
No.
E prova, tieni. E rideva.
Vattene va’…
Ma’ cucinava.
Quello semplice? t’ha chiesto lui, e gli occhi ti si sono sbarrati.
Non lo diceva da un sacco. Il cuore batteva forte, e lui Eh?, e t’ha dato un bacio sul collo, e hai fatto sì con la testa, piano, e piano hai detto Sì, quello semplice, e ha dato un’altra succhiata e sbuffata di fumo… E poi t’ha detto Però devi fare la brava. Va bene?
E allora si alza, esce dalla stanza e dopo un po’ rientra con un tipo col capello e gli occhiali neri. Il Signore ha una piccola telecamera in mano. Si piega vicino al letto. Sorride, ma gli occhi sono fermi. Sono scuri. Domani ce ne andiamo a prendere il vestito… Però mo devi fare la brava, eh? Lui è un mio amico. Devi stare con lui, dice, e ti accarezza la faccia. Gli allontani la mano.
Cosa?
Il cuore ti batte forte, e lui ti stringe il braccio, ti fa male.
Lo vuoi o no il vestito?
Che stai facendo? Lascia. Lasciami, gridi, scoppi a piangere, e lui ti prende la faccia, la stringe.
Ti vuoi stare buona o no?
Ti guarda male.
Lascia stare, fa lo sconosciuto a lui, facciamo un’altra volta.
Aspetta, dice lui, arrabbiato, dove vai? Aspetta, e si volta a guardarmi male.
No, no, fa lo sconosciuto, Non mi piace così. Facciamo un’altra volta. Ed esce dalla stanza, e lui ti guarda, gli occhi cattivi, prima di seguire l’altro. Piangi. Tremi. Dopo un po’ ti alzi, ti avvicini alla cucina senza farti accorgere. Aspetta, dice Il Signore. È piegato sul tavolo. Ci pesta qualcosa con l’accendino, un pezzetto di cosa bianca, come il sale. E mentre pesta dice basso, nervoso, Mo gliela mettiamo nel brodo e glielo dai, a quella troia. E poi correvi, in mezzo alla strada. Come una pazza, correvi, i piedi nudi. Eri scappata. Scappavi e – Calma, tra un poco ti passa. Ti affannavi e piangevi e vedevi tutto ombrato, e ti affannavi e piangevi, e le ombre bianche, gli infermieri, Calma, dicevano, Tra un poco passa.
Quando ti sei svegliata, hai visto il vecchio dagli occhi tristi che ti sorrideva. Accanto al letto. Stava seduto. Ti ha investito una macchina, ha detto: anca e caviglia fratturate, e non so cos’altro. Hai perso i sensi. Un bel danno. Ma passerà. Ora devi starti tranquilla.
È stato lui a chiamare l’ambulanza. T’aveva seguito, quella sera. E ora se ne stava lì, accanto a te. I suoi occhi erano fermi nei tuoi.
Vuoi qualcosa? t’ha detto.
Guardavi la finestra. Poi lui se n’è andato.
A mia figlia l’ha uccisa la droga, ha detto, il giorno dopo.
Tradiva la moglie e aveva il vizio del gioco e così le aveva allontanate, a lei e alla figlia. Poi era venuto a sapere che la figlia se la faceva con quelli, nel vicolo. In quel vicolo.
Una sera vado là, ti ha detto. Ha detto, Ho fatto il pazzo, ho fatto, e uno m’ha messo il coltello alla gola e… è grazie a mia figlia se sto qui. Se no m’ammazzo pure io, gridava mia figlia. Gridava Lasciatelo, se no m’ammazzo! Vattene! mi diceva, Te ne devi andare! Mi aveva preso a schiaffi. Mi aveva detto Non sei più nessuno per me, vattene! Mi prendeva a schiaffi, mi spingeva. Non ti fare più vedere, aveva detto. E io me ne sono andato. Mia figlia non l’ho più vista, e poi un giorno vengo a sapere che è morta.
Il giorno dopo il vecchio ti ha preso piano la mano, c’ha piegato la fronte. Stavi nel letto. Lo guardavi, e lui aveva cominciato a dire qualcosa, a bassa voce, come a pregare. E t’ha guardato. Aveva gli occhi lucidi. Ha preso una foto dal portafoglio, con una mano che tremava tutta, e l’altra continuava a tenere la tua. C’era una ragazzina, nella foto, e te l’ha fatta vedere. Il vecchio aveva gli occhi lucidi e tristi.
Avete gli stessi occhi, t’ha detto.
La Sora? Non è possibile.
La conoscevi?
No. Non lo so.
Ti guardi allo specchio del bagno. Hai la faccia struccata e un camice addosso. Muovi un altro passo.
Provaci, almeno, ha detto il vecchio, ieri, e t’ha dato un biglietto.
Cos’è?
Questo è il mio numero di telefono. Ha indicato il primo numero, poi quello sotto, E questo è un bel posto. Loro ti possono aiutare.
Guardavi il biglietto, e lui fa I numeri, li sai leggere?
Guardavi il biglietto e gli occhi di lui, lucidi, grandi, fissi nei tuoi.
Te li chiamo io? Posso parlare io, con loro. Quando esci, puoi venire a casa. Così decidi – datti una possibilità. Di scegliere. Capisci?
Hai guardato la finestra. C’era un bel cielo. Un bel cielo chiaro, e allora ti sei ricordata della favola – le lucciole e l’orizzonte e la luce. Tutta quella luce.
Poi il vecchio è ritornato. Ti insegnano a leggere? gli hai chiesto.
Anche… Sì.
Hai guardato il cielo. E ti sei alzata. Ti faceva male tutto. Piano, a fatica, ti sei alzata, e lui anche.
Vieni… Vuoi una mano? Vieni.
No.
Ti aiuto io, vie-
No. Faccio io.
Hai preso la stampella. Hai fatto un passo, piccolo, lento, e poi un altro passo, e poi un altro passo, e lui ti seguiva, e prima di chiuderti in bagno gli hai detto Grazie. E lui t’ha sorriso appena, non più tanto triste.
Zoppichi verso lo specchio. Ci guardi i tuoi occhi.
Vuoi proprio conoscerla, quella favola.
Sì, lo voglio.
Giuralo.
Lo giuro.
Giuralo.
Lo giuro.
Guardo i miei occhi, e il camice, semplice e bianco.
di Nicola Esposito
Nicola Esposito nasce a Bari nel 1985. Nel 2009 pubblica Quattro chiacchiere con Altromondo editore. Nel 2013 con Petali di giglio si classifica secondo nel concorso “Scriviamo insieme”. Nel 2019 vince il concorso “Nessuno scrive” con Fiore di legno. Ha pubblicato racconti su diverse riviste, tra cui Come felice (Inutile), Nomade del deserto (Suite italiana), Il lamento del cane (Quaerere).
Illustrazione di Beatrice Nicolini
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