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Fumi-E
Parole di Marco Daniele ~ Illustrazione di Maria Panzone
Posted in Narrazioni on 24 Maggio 2023 19 min read
Derek morto sul tappeto Previous Supernova  Next

Criii criii criii.
Il frinire dei grilli non gli fa chiudere occhio.
O forse è il tanfo della stanza in cui sono stipati in otto.
O ancora, i morsi della paura.
Criii criii criii.
Kojirō se ne sta rannicchiato nell’angolo. Le tenebre gli fanno da coperta. Ha il viso sprofondato tra le ginocchia, lo sguardo basso sul pavimento inzaccherato. Ma ciò che vede non è il sudiciume ai suoi piedi. Davanti agli occhi gli si dipingono le scene di martirio che padre Sebastião ha raccontato tante volte ai giovani del villaggio.
Il ragazzo rabbrividisce mentre si immagina nei panni di un santo martoriato. Nel suo incubo a occhi aperti, gli aguzzini lo legano a un palo, gli lasciano addosso solo la decenza di un fundoshi logoro. Si sistemano in fila davanti a lui e con sadica calma incoccano le frecce, tendono gli archi. Se li immagina come ragni che hanno intrappolato la loro preda nella tela e non hanno bisogno di affrettarsi, possono concedersi il lusso della lentezza. Il rumore delle corde che scattano fende l’aria, un attimo prima che le carni siano trafitte da quei dardi implacabili.
Per Kojirō è troppo. Un urlo erompe dalla sua gola: «Pietà!»
Criii criii criii.
«Stai bene, figliolo?»
Kojirō solleva lo sguardo ricolmo di lacrime.
Il volto dell’anziano Gen’emon è una ragnatela giallastra di rughe. Assomiglia alle reti che per anni ha maneggiato, vivendo da pescatore. Le sue mani sono callose, ma quando le posa sulle spalle del ragazzo il loro tocco è delicato.
«Sii forte» continua Gen’emon. «Come ci ha insegnato Sebastião-shinpusama. Come ci hanno insegnato i padri cristiani prima di lui, quando ancora potevano camminare su questa terra. Prima che Dio ci chiamasse a questa prova di fede.»
Non è una prova di fede, vorrebbe dirgli Kojirō. Se Dio è amore e bontà, perché lascia che i Suoi figli soffrano le tenaglie dei persecutori? Se Dio conosce l’animo di ciascuno, perché ha bisogno di saggiare la fedeltà di chi crede in Lui? Se Dio può tutto, perché non punisce i nemici del Suo popolo con una pioggia di fuoco?
Ma quelle parole gli muoiono in gola. Lo frena la vergogna, certo, ma anche la sicurezza del vecchio. Se Gen’emon confida con tale fervore in Nostro Signore, chi sono io per esprimere dubbi?, si dice Kojirō.
Criii criii criii.
«Meglio dormire» sentenzia l’anziano. «Vedrai che domani sarà tutto finito, figliolo. Sebastião-shinpusama si è nascosto bene tu-sai-dove. Non lo troveranno e saranno costretti a lasciarci andare. Il magistrato non è poi così crudele.»
Kojirō si limita ad annuire.
«Dicono sia un uomo ragionevole» continua Gen’emon. «Non troppo crudele e mai ingiusto. Di certo sa che i capricci religiosi di un pugno di pescatori di Fukue non possono impensierire il potere shōgun. Siamo come tafani che disturbano un maestoso elefante…»
«Ele-che?» domanda Kojirō.
Le labbra del suo interlocutore disegnano un sorriso, che fa sembrare ancor più raggrinzito il volto. «Una creatura gigantesca che vive nelle terre oltre il mare, a sud. Quand’ero giovane – oh, molto giovane, quindi parliamo dell’epoca in cui nemmeno c’era uno shōgun a Edo – io e la buonanima di mio padre fummo colti da una tempesta mentre pescavamo al largo. Finimmo – non voglio esagerare – a tre o quattro ri dalla costa. Morte assicurata, se non ci avesse ripescati dal mare un vascello portoghese diretto a Malacca…»
Kojirō conosce a menadito quella storia, anche se è la prima volta che il vecchio Gen’emon la associa a un elefante. Sa a memoria i nomi dei luoghi che l’anziano sciorina e che lui non vedrà mai, perché la distesa infinita d’acqua salata che parte dal suo villaggio e si perde nell’orizzonte è il confine di tutto il suo mondo.
Solo a quel punto degna di uno sguardo gli altri compagni di sventura. Seibē, Sannojō e Jin’emon sono uomini adulti induriti dalla vita del pescatore. I loro volti non tradiscono inquietudine, semmai stoica rassegnazione. Iroha e Chiko, poco più che ragazzine, sono crollate addormentate sotto il turbine di emozioni scatenate dalla prigionia. Zia Mego, volto di pietra e occhi asciutti dopo aver versato tutte le lacrime che ancora avevano, accarezza i loro capelli.
Criii criii criii.
Non sono forte come i martiri, si dice Kojirō. Non sono forte come Sebastião-shinpusama. E nemmeno come voi, Gen’emon-san. O come Seibē-san, o Sannojō-san. E neppure come la zia Mego. Voi tutti sopportereste le tenaglie roventi, la mannaia, le frecce, i denti divelti, le unghie strappate, i tagli, le ustioni, le percosse. Persino Iroha e Chiko le sopporterebbero, ne sono certo, per non darvi alcun dispiacere come apostate. Io non sono come voi. Io spergiurerei al primo livido, rinnegherei Cristo tre volte, o anche sei, nove, mille volte, al primo osso spezzato. Per questo ho paura di ciò che verrà domani. Voi affrontereste il martirio con la gioia sul volto.
Torna ancora una volta a fissare il volto dell’anziano pescatore, perso nelle sue storie sulle prostitute di Macao e sui mostri marini. Gli verrebbe da interromperlo e chiedergli: Perché Dio mi fa questo, vecchio Gen’emon-san? Perché ci fa questo, Sebastião-shinpusama? Nei libri sacri che citi con così tanta sicumera c’è una risposta a questa domanda?
E ancora: Perché Dio, nella sua infinita misericordia, non mi uccide di crepacuore seduta stante, risparmiandomi l’ignominia dell’abiura e del tradimento? Perché?
Criii criii criii.
La sinfonia dei grilli continua a rompere il silenzio di Dio.

Criii criii criii.
Un’invisibile orchestra di cicale annuncia il nuovo giorno.
Le guardie del magistrato che fanno irruzione nella prigione sono minacciosi come oni, anche senza la pelle rossa e le corna sulla fronte. Le loro dita sono fatte di acciaio, a giudicare dalla forza con cui stringono le braccia di Kojirō per costringerlo ad alzarsi.
Nessuno oppone resistenza. Il ragazzo per paura, certamente, e gli viene spontaneo chiedersi se anche gli altri lo facciano per quel motivo, o se per una qualche forma di rassegnata accettazione del proprio destino.
Criii criii criii.
Il magistrato ōtomo Musashi siede sul suo lussuoso sgabello da campo, laccato di nero. Non è minaccioso come Kojirō si sarebbe aspettato: un ometto paffuto, calvo, con abiti di almeno una misura più grandi. Nemmeno il ventaglio che stringe tra le mani e la coppia di spade che pende dalla sua cintura riescono a dargli un’aria feroce.
Erano così i samurai che due-tre generazioni fa hanno versato il proprio e l’altrui sangue per riunire il paese? si domanda Kojirō.
«Signori… e signore.» Persino la voce dell’uomo ha un suono dolce come il miele. «Voglio sperare che le notti trascorse come miei ospiti abbiano rischiarato le vostre menti.»
Il canto delle cicale è l’unica risposta.
Criii criii criii.
«Sappiamo che nel villaggio di Minamitsunai nascondete un vile kirishitan» continua mellifluo il magistrato. «Diteci dove si è nascosto e avrete salva la vita. Noi non vogliamo la morte vana di sudditi fedeli.»
Gli uomini e zia Mego si scambiano occhiate gravi. Nessuno di loro parla.
«Non voglio perdere tempo con questa faccenda» sospira il magistrato. «Consegnatemi il vostro… com’è che lo chiamate?… il vostro shinsai, il vostro prete, e io non vi torcerò un capello. Ma continuate questa sciocca disobbedienza e sarò costretto a–»
La frase di Ōtomo rimane a metà. Invece fa un cenno di ventaglio per la guardia alle spalle di Seibē. Un colpo al ginocchio, netto e preciso, fa vacillare in avanti il solido pescatore.
«Il prossimo sarà per le fanciulle» minaccia il magistrato. «E poi–»
«Uccideteci pure, allora!» La voce possente di Sannojō copre persino l’insistente criii criii criii. «Nessuno di noi rinnegherà! E che Dio possa avere pietà delle vostre anime di carnefici!»
Un ghigno aleggia sul volto di Ōtomo. «Bene» è l’unica parola che esce dalle sue labbra, prima dell’ennesimo gesto col ventaglio.
Sannojō si ritrova in ginocchio accanto a Seibē. I due mantengono lo sguardo fisso davanti a loro, il volto impassibile. L’unico movimento che compiono è quello di giungere le mani all’altezza del petto, e per qualche strano capriccio di misericordia Ōtomo glielo lascia fare.
Il rumore dei tachi sfoderati dalle guardie alle loro spalle fa rabbrividire Kojirō. Non ha mai visto un uomo ucciderne un altro, ma non dev’essere molto diverso da quello che succede ai pesci, una volta pescati. E l’immagine di un uomo decapitato e sviscerato come un goma saba non ha nulla di divertente, anzi, gli procura un conato di vomito.
«Che hai, merdoso kirishitan?» tuona la guardia alle sue spalle.
Kojirō si volta di scatto, impaurito, e nella repentinità del movimento perde l’equilibrio. Cade a terra, tremante. Una macchia umida si allarga in mezzo ai calzoni logori.
«Si sta pisciando sotto!» ci tiene a informare tutti la guardia. «Questi kirishitan non sanno nemmeno –»
«Basta così» La voce del magistrato è di nuovo calma. Per tutta la durata della prigionia Kojirō se l’è immaginata come un’onda muggente che si infrange sulla scogliera, e invece persino quando dà un ordine somiglia allo sciabordio sulla sabbia.
Criii criii criii.
Le fredde lame si posano per qualche istante sui colli di Seibē e Sannojō. Rabbrividiscono appena, ma non si scompongono. Le ginocchia restano unite, i talloni ben aderenti alle natiche.
Nel loro campo visivo i due inginocchiati non possono vedere i movimenti degli aguzzini, ma Kojirō sì. Ignorando completamente le mani che le brandiscono, osserva le spade sollevarsi lentamente, con la grazia di un airone che spicca il volo, e rimanere sospese nell’aria lassù, pronte a scendere in picchiata come gli artigli di uno sparviero.
Dinanzi agli occhi del ragazzo si dipinge l’ennesima scena del martirio: il ferro che trancia la carne in un istante, il sangue che sprizza, le teste che rotolano via come zucche mature. Nella sua visione, il volto di Sannojō è sereno e quello di Seibē addirittura annoiato, come se dopo i truculenti racconti di padre Sebastião si fosse aspettato un martirio più in grande stile.
No! si dice Kojirō, io non resterei impassibile come loro.
Gli tornano alla mente le parole che una volta padre Sebastião recitò al villaggio: “In verità ti dico, Pietro, che il gallo non canterà che già tu non mi abbia rinnegato tre volte”.
E prima che la cicala frinisca ancora tre volte, Kojirō prorompe: «Io so dove si trova Sebastião-shinpusama! Vi prego, Ōtomo-kakka! Ōtomo-bugyō! Risparmiate le nostre vite! So dove si nasconde il nostro shinsai!» La foga con cui parla non gli impedisce di notare la smorfia di disappunto che oscura il volto del vecchio Gen’emon. «Sebastião-shinpusama si nasconde in una capanna sul monte Tori-no-Su. Lo troverete lì, in una botola sotto il pavimento. È così che è sfuggito alle ultime tre ispezioni delle vostre guardie!»
Un sorriso aleggia sul volto grassoccio di Ōtomo. Per un attimo Kojirō è sicuro che pronuncerà le parole che più di tutte desidera: “Siete liberi, tornate al vostro villaggio. Tornate a spaccarvi la schiena sulle reti e sulle barche. Tornate alle vostre insulse esistenze, ma vivi”.
Ho ceduto, si dice intanto il ragazzo. Non sono mai stato forte come voi, Seibē-san, Sannojō-san. Eppure così vi sto salvando. Zia Mego, non biasimarmi. Vecchio Gen’emon-san, perdonami se puoi. Iroha, Chiko, disprezzatemi pure, odiatemi; ma sappiate che così facendo vi salvo. E voi,Ōtomo-kakka, siate benedetto per averci lasciato andare. Sì, siate benedetto–
Il ventaglio del magistrato si abbassa mentre il sorriso ingannatore increspa ancora le sue labbra simili a vermi. Le braccia dei guerrieri scattano come fulmini. Il metallo fende la carne e le ossa. Le teste dei due pescatori rotolano sulla terra.
Kojirō rimane impietrito di fronte a quella scena. Sente i lamenti delle fanciulle e persino della zia Mego, lei che non ha mai visto piangere, e vede l’ombra cupa che passa sul volto del vecchio Gen’emon; ma la sua mente è altrove. Rivolta a padre Sebastião, nascosto nella sua capanna, ignaro del suo Giuda e dei soldati che stanno andando a prenderlo. Rivolta alle anime di Seibē e di Sannojō, che si sono guadagnate l’onore del martirio. Rivolta al santo crivellato di frecce che popolava i suoi incubi la notte precedente e che adesso lo fissa con aria di biasimo.
Criii criii criii.
A malapena il ragazzo si accorge dell’ordine impartito da Ōtomo: «Portate l’ita-e!» e delle forti mani che lo afferrano, due per braccio, rimettendolo in piedi. Solo quando l’uomo alla sua destra gli urla in un orecchio: «Adesso ti sottoporrai al fumi-e! Calpesta l’immagine di quel falegname che tanto venerate e vedrai che Ōtomo-bugyō ti farà salva la vita!»
Per un attimo, Kojirō si ritrova a chiedersi se nelle parole della guardia non ci sia apprensione nei suoi confronti. Mi sta dicendo così perché non vuole che muoia, ovvio. Ma poi ragiona ancora, e realizza: Mi sta schernendo. Quest’uomo ha visto la forza della fede di Seibē-san e di Sannojō-san, e adesso deride la mia debolezza.
Criii criii criii.
L’ita-e da calpestare gli viene posto davanti ai piedi.
Kojirō non ha mai visto un crocifisso. Padre Sebastião diceva di averne portato uno con sé dal Portogallo, ma di averlo perduto durante la traversata. Ciò che il ragazzo ha in mente è solo una descrizione, un uomo seminudo sulla croce, con le palme e le piante trafitte dal ferro, il volto rigato di sangue.
La tavoletta di metallo riproduce in maniera abbastanza fedele quell’immagine che ha nella mente. Lo sorprende sapere che i nemici di Cristo si siano impegnati così tanto per realizzare una simile effigie, ma poi si risponde: Forse pensano che più sia bella, più sia doloroso per noi calpestarla? Ma soffrirei anche se mi chiedessero di calpestare un pezzo di legno con una croce sopra.
«Calpestalo!» La voce del magistrato adesso è dura come la lama d’acciaio che ha troncato le vite di Seibē e di Sannojō.
Kojirō esita. Cosa ho da perdere? si domanda. Ho venduto un innocente per la vita di altri due, invano. Non posso salvare nessuno, solo me stesso. Ma un lurido Iscariota come me non merita di essere salvato.
Criii criii criii.
Abbassa lo sguardo sui suoi piedi nudi, inzaccherati di luridume e del piscio che è ruscellato lungo le gambe. Non sarebbe neanche giusto calpestare Nostro Signore con questi piedi sudici come la mia anima, si dice ancora.
«Calpestalo!» ripete il magistrato Ōtomo.
Kojirō lo ignora.
Un colpo lo raggiunge dietro l’orecchio destro. È un macigno che per poco non lo manda a terra, ma il ragazzo rimane in piedi. Nostro Signore sopportò le frustate, i chiodi e la corona di spine. A me infliggerebbero la morte rapida della spada, o al massimo l’agonia del cappio, ma non sarebbe nulla in confronto a quanto sopportato da Nostro Sign–
Un altro colpo, questa volta sul lato sinistro della testa.
Kojirō barcolla, ma pianta bene i piedi a terra e non cade. Io sono Pietro, si ripete nella mente. Non Giuda, Pietro! Come Pietro ho rinnegato Nostro Signore. Ma poi Pietro si pentì e morì da martire. Così ci ha raccontato padre Sebastião. Forse anche io posso –
«CAL-PE-STA-LO!» Stavolta l’ordine viene scandito sillaba per sillaba. Il magistrato ansima come se avesse corso, ma è rimasto sempre assiso sul suo scranno. Si affanna perché quell’inaspettata resistenza lo coglie impreparato.
«CALPESTALO! CALPESTALO! CALPESTALO! POSA IL TUO LURIDO PIEDE SU QUELLA LURIDA EFFIGIE E AVRAI SALVA LA VITA, RAGAZZO! ALTRIMENTI TI FACCIO AMMAZZARE COME UN PORCO!»
Il volto del magistrato Ōtomo Musashi è contratto in una smorfia di rabbia, gli occhi sembrano sul punto di scendergli sulle guance. E ansima ancor più di prima.
Ma Kojirō non cede. E questa volta l’ordine non viene dato con un elegante gesto del ventaglio, ma con un rabbioso – e affannoso: «AMMAZZATELO!»
Sopporterò il martirio, si dice Kojirō, prima che lo colpiscano dietro la testa. Stavolta il colpo è forte, sente persino scricchiolare l’osso del cranio. Ah, se Dio fosse misericordioso morirei all’istante!, si dice ancora, ma nessuna misericordia gli viene dal cielo, mentre rotola a terra.
Gli uomini di Ōtomo gli sono addosso. Non saprebbe dirne il numero, non ci ha fatto caso prima e adesso non ha lucidità sufficiente per contare. L’unica cosa che sa è che sono precisi con i calci e con le aste delle loro alabarde.
Kojirō cerca di sgusciare via da quella gragnola di colpi, ma più si dimena e più numerose sono le percosse che lo raggiungono nel ventre, nelle costole, nella schiena, nell’inguine, sulle gambe e nei testicoli.
Sopporterò, si dice. Sopporterò. Sopporterò. Sopporterò.
Le guardie non lo colpiscono al volto, come se non volessero sporcarsi con il sangue che, vista la foga, zampillerebbe sicuramente dal suo naso e dalla sua bocca.
O forse è una tattica per non farmi svenire, pensa il ragazzo. Oh Dio, perché non mi fai svenire? Perché non mi getti addosso la morte? Tutto, pur di non soffrire!
Ma nessun Dio misericordioso lo ascolta. Un calcio lo colpisce nel bel mezzo della schiena. Un pestone lo raggiunge sul fianco destro e Kojirō sente le costole incrinarsi. Un altro colpo gli provoca una fitta di dolore ai genitali.
Sopporterò. Sopporterò. Sopporterò. Sopporterò. Sopp–
Il pomolo di metallo di un’alabarda si abbatte implacabile sul suo gomito destro. Il craaack! risuona nell’aria e una scossa di dolore gli arriva fino alle dita dei piedi. La vescica cede ancora e, stranamente, lo scorrere dell’urina gli dà una sensazione di sollievo.
«CALPESTALO!» Kojirō non può vedere il volto del magistrato, ma se lo immagina ormai paonazzo, con gli occhi fuori dalle orbite tanta è la rabbia. «FIGLIO DI UNA CAGNA KIRISHITAN, CALPESTALO! CALPESTALO! IO TI FARO’ CEDERE, CANE DI UN DEGENERATO! CALPESTALO!»
«CALPESTALO!» Kojirō non può vedere il volto del magistrato, ma se lo immagina ormai paonazzo, con gli occhi fuori dalle orbite tanta è la rabbia. «FIGLIO DI UNA CAGNA KIRISHITAN, CALPESTALO! CALPESTALO! IO TI FARO’ CEDERE, CANE DI UN DEGENERATO! CALPESTALO!»
Un colpo al petto. Un calcio nello stinco. Un altro all’inguine. Una suola che si abbatte sulle sue dita. Kojirō non riesce più a seguirli tutti, ormai ogni percossa è come se riguardasse tutte le sue membra. Gli resta solo la forza per dire dentro di sé, ogni volta che ne arriva una: Fa’ che sia l’ultima, Signore! Fa’ che questo calcio mi porti la morte! Non ce la faccio più, mio Signore! Accoglimi nel paradiso! Ti supplico!
Criii criii criii.
Non resisto più, mio Dio! Un altro calcio e muoio, dai! Un altro colpo e fai calare sui miei occhi il sollievo della morte, dai! Ti supplico! Ti supplico! TI SUPPLICO!
Dio è sordo alle sue preghiere, come lui alle esortazioni di Ōtomo Musashi che continuano a piovergli addosso.
Ti supplico, buon Dio, liberami da questa sofferenza! Liberami, altrimenti io… io cedo! Cedo!
Finalmente il primo calcio lo raggiunge al volto. Kojirō sente il mondo intero ridursi in frantumi. Il dolore gli si pianta nel cranio come uno dei chiodi della Croce, mentre la bocca impastata di terriccio scopre il sapore del sangue.
Se lassù nei cieli vi fosse un essere buono, si dice con quel po’ di lucidità che gli resta, mi libererebbe da questa sofferenza uccidendomi all’istante. Anzi, nemmeno! Eviterebbe alla radice questo male. Eppure lascia che io soffra. Ha lasciato che Seibē e Sannojō morissero. E lascerà che Sebastião-shinpusama muoia. Forse che un simile Dio in realtà non… non esista?
Si aspetta l’ennesimo colpo in faccia Kojirō, e invece nulla. Le guardie lo fissano dall’alto, come statue all’ingresso di un tempio. Minacciose, austere, composte persino nel pestaggio. Poi due di loro si chinano sul ragazzo.
Kojirō fa per muovere le labbra, ma non ne esce alcun suono mentre sente le forti mani che afferrano le sue braccia e lo tirano su. Lo fanno voltare verso Ōtomo-kakka. Adesso il volto del magistrato non è più una maschera rossa di rabbia da Oni, sembra il volto misericordioso del Buddha.
«Calpesta il simbolo della tua falsa fede, figliolo» Persino la sua voce è più dolce. «Piegati. Non costa niente, no?»
Kojirō abbassa lo sguardo sull’effigie ai suoi piedi. Il dio crocifisso lo fissa silenzioso, senza parlare. Proprio come Suo Padre in cielo.
Il ragazzo sospira. E il suo piede nudo e lercio si posa sul volto di Cristo.
Lontano echeggiano le cicale: Criii criii criii.

di Marco Daniele

Marco Daniele è nato a Mottola nel 1990 e risiede a Taranto, dove insegna lettere in una scuola secondaria di primo grado. Ha svolto un dottorato di ricerca in letteratura italiana contemporanea presso l’università di Bari, studiando l’attività di Piero Gobetti come critico letterario e teatrale, e in ambito accademico ha pubblicato diversi saggi di italianistica e preso parte ai convegni della Società italiana per lo studio della modernità letteraria (MODLET). Suoi racconti e versi sono apparsi su riviste letterarie e in antologie. Nel 2022 ha pubblicato per l’editore Bertoni la raccolta poetica Il riso della manticora.

Illustrazione di Maria Panzone


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