La seconda volta che la vidi, Samanta mi chiese se l’avevo cercata su Instagram. La prima volta, invece, mi chiese due volte il mio nome.
– Come hai detto che ti chiami?
– Alessandro, – risposi. – E no, non ho Instagram.
Adesso era la terza sera che ci incontravamo casualmente sul marciapiede del Bar Bah, e qualcosa in me cominciava a scricchiolare.
Quartiere Isola.
Zona un tempo confinata dietro stazione Garibaldi, nel corso degli anni era diventata un’attrazione collegata al mondo, anzi, tutto un mondo vero e proprio; di isolato conservava il passato di individui destinati a incrociarsi.
Ora, chiamarla Isola, era un paradosso, un anacronismo un po’ triste, dal momento che la quantità di locali venuti a galla dal nulla aveva trasformato quel luogo nel meno appartato della città. Lì le persone trovavano un porto sicuro, si mischiavano al ritmo delle maree, di un mare che da quelle parti non esisteva, se non nella creatività delle menti e nell’agitazione dei cuori che lo navigavano. Eppure, non c’era nome più azzeccato.
Isola.
Richiamo esotico per moderni pirati dediti al vezzo del drink facile.
Io?
Io ero Achab, rinnegato dai filibustieri perché pirata non ero, zoppo d’animo a causa di un’esistenza trascorsa a galleggiare nel benessere, ossessionato dal continuo inseguimento della balena bianca e incline all’odio verso l’umanità, segnato da una deformità che, se da un lato mi illudevo mi rendesse unico, dall’altro, a tratti nemmeno tanto brevi, mi sottoponeva a un regime di eguaglianza con la massa e insieme mi relegava a una condizione di solitudine incompresa persino a me stesso, una condizione alla quale però ero talmente abituato, che qualsiasi tipo di compagnia mi risultava insopportabile.
Lei?
Lei era la mia balena bianca, sfuggente, furba e crudele, i suoi giochi di prestigio erano in grado di invertire il flusso della mia intolleranza. Appariva e scompariva, Samanta, per gli amici Sem. Un attimo prima te la trovavi accanto e subito dopo emergeva dall’altra parte del locale, pressata dai discorsi dell’avventore di turno. Era una lotta impari, un rapporto sbilanciato: per uno con cui parlava, altri cento in coda pronti a farsi avanti.
Analizzando la genealogia o, per così dire, l’etimologia del capello, potremmo considerare Samanta una diretta discendente di icone flappers quali Audrey Hepburn e, di conseguenza, la più recente Anne Hathaway. Perché se c’è una cosa che il cinema insegna è che la lezione senza dubbio si ripete. Si ripetono le storie, si ripetono le attrici. E forse anche la vita tende un po’ ad alimentare ripetizioni incomprensibili. Perciò eccomi qua, terzo sabato di fila nello stesso posto, contento di dovermi ripetere. Il Bar Bah sfoggiava ciurmaglia tatuata fino all’osso, personaggi dalla barba ascetica sopra il ventre teso dall’alcol, le bottiglie pronte al mix di sieri profetici.
La verità?
Era andato tutto storto fin dall’inizio. La prima sera, mentre stavo pagando alla cassa, Samanta mi invitò a unirsi a loro. – Noi andiamo in piazzetta, – disse, – vieni?
– Non ho voglia, – mentii, – meglio che io torni a casa.
Quando mezz’ora dopo varcai la soglia della mia ex, un pompino a regola d’arte mi diede il tempo di addormentarmi senza pensare alla balena bianca. La parte pantofolaia di me aveva preferito il mite sollievo di una realtà conosciuta al rischio dell’ignoto, e la mattina seguente mi ritrovai con mille domande e poche risposte.
Affrontai la settimana sapendo che il prossimo sabato avrei rivisto Samanta. Ma in ufficio non ero concentrato. Una falsa rottura del supporto aveva scatenato la decisione di spostare 1/3 della posizione del portafoglio su un titolo di droni cinesi, anziché rimanere nel business dei viaggi spaziali Usa, e la paura di un imminente crollo dai massimi storici di Wall Street improntarono la mia operatività alla cautela, rimanendo flat coi rimanenti 2/3 di liquidità. Un disastro. A seguito della licenza di volo interstellare rilasciata a sorpresa dalla Federal Aviation Administration, Virgin Galactic partì a razzo in premarket e aprì il mercoledì in gap up, si mantenne con forza spaventosa sopra valori accettabili di acquisto e la mia strategia difensiva andò a farsi fottere: non persi niente, ma non guadagnai i 20mila euro che avrei incassato in 24 ore. Ero distrutto. Uno straccio. Inoltre i droni cinesi non decollavano. Il rimpianto mi svegliava all’alba e le giornate non avevano né sole né pioggia, né pranzi né cene, vivevo in una specie di limbo sordo e scialbo, senza orari che non fossero timeframe su grafici a 5, 15 e 30 minuti, e le notti si esaurivano progettando la prossima mossa davanti a schermi con candele giapponesi. I soldi vanno e vengono; quando vanno, ti girano i coglioni alla grande.
Con questo stato d’animo il sabato successivo imboccai la strada verso Isola. Ero stanco morto. Sul parabrezza dell’auto si accendeva un bellissimo tramonto che la gretta poetica del mio cervello decodificava come un gap up di fuga.
Un uomo dimmerda, pensai, ecco cosa sei diventato. Un ingrato. Una persona che non si gode la vita e non riconosce la suggestione di un tramonto. Perdevo l’intera settimana appresso a un lavoro inutile, ecco perché quando arrivai al bar ero sollevato di strappare pochi istanti di conversazione con Samanta, di vederla, stare con lei; il tempo speso in compagnia di una donna è sempre tempo guadagnato. Ma per quanto questa frase suonasse romantica alle mie orecchie, dimostrava ancora una volta che i concetti di denaro e profitto non erano rimasti in ufficio, si erano insediati dentro di me e non riuscivo a scacciarli.
Io non ero così. Che fine avevo fatto? Mi sentii una merda al quadrato. Anche perché Samanta non c’era.
Mi ritrovai invece seduto su una panca insieme a un certo tipo di nome Boss, almeno così mi si presentò mentre venne a scroccare filtro e cartina per rollare il tabacco. Aveva il taglio alla Grindelwald e la dialettica di Long John “gamba di legno” Silver.
Quando gli spiegai il motivo della mia visita al Bar Bah, cioè una ragazza conosciuta qualche sera prima, lui cercò di persuadermi che il tesoro dell’isola non esiste.
– Che poi a te, Alessandro, – ghignò, – diciamocelo, cazzo te ne frega. Una vale l’altra.
Non me la dava a bere. Sapevo cosa intendeva. Ma sapevo anche riconoscere la diversità: un branco di cetacei non fanno una balena bianca.
Pensavo che Boss fosse gay e che volesse rimorchiarmi, perciò appena mi confidò di avere un figlio tirai un sospiro di sollievo.
– Sto festeggiando lui, mio figlio, – disse, la voce stridula come un coltello arrugginito. Alzò il boccale per un sorso – Brando, bel nome, no?
– Complimenti, – mi unii al brindisi senza troppo entusiasmo. – A Brando, allora, – e subito pensai: Cristosanto, Samanta, dove sei?
– A Brando! A Brando!
E via così, una buona scusa per continuare le celebrazioni: giro di birra, sigaretta, chupito alla goccia. Respira. Chiudi gli occhi. Ripeti.
– All’inizio non lo volevo. Nooo, un figlio, io? Naaa. Ma poi la mia ex si è presentata alla porta, e sai che c’è? – mi strinse un braccio. – Mi sono trovato bene.
– Felice per te. Anche io ogni tanto frequento una ex. Sposata con figli. Ci vediamo per del petting spinto. Una storia malata.
– Con Brando! – Boss mi spinse gridando allo scandalo. – Mi sono trovato bene con Brando. Ha un anno e mezzo, devi vedere che bello… e sai che c’è?
– No Boss, che c’è?
– Zero rotture di coglioni. Mi sono risparmiato i pianti e i pannolini e ora sono pronto per questa mia nuova responsabilità di padre, – alzò la mano verso il cameriere. – Un altro giro…
Stavo affogando nell’alcool senza scialuppa di salvataggio, quando lei apparve dal nulla. Mi arrivò l’urlo snervato di Boss. – Macciao, Sem!
Per mille balene, i due si conoscevano. L’istinto iniziale fu quello di arpionare Boss al fegato, ma non riuscii ad aprire bocca perché il socio straparlava. Poi Samanta afferrò uno sgabello e attaccò conversazione con un altro tipo, uno con in testa una specie di basco. Poggiò il Negroni al nostro tavolo e ci voltò le spalle.
– È lei, – confessai a Boss, – cerca di non fregarmela.
– Ah, caspita, te le scegli bene.
– Vedi? Non mi caga nemmeno. Mi dà pure le spalle.
– Ci regala la sua parte migliore, guarda che roba.
– Hai ragione, – e stavolta lo dissi io, – sai che c’è? C’è che me ne sbatto, – presi una cartina. – Hai una penna?
– No, te la procuro subito.
Scrissi il mio numero sulla cartina e la infilai nel bastoncino di legno nel Negroni. Poi io e Boss aspettammo la reazione. Il locale e il marciapiede e i tavoli fuori fecero in tempo a riempirsi di gente zeppa di alcool, prima che Samanta si girasse per un sorso. La cartina stava scivolando nel drink con una lentezza esasperante.
– Girati, dai, bevi quel cazzo di Negroni.
Allora accadde l’impensabile. Samanta agguantò il Negroni, si congedò dal tipo col cappello e ondeggiò sul marciapiede senza accorgersi della cartina. Cominciai a tremare. Quando notò che qualcosa le svolazzava davanti stava già flirtando con un altro tipo, ma invece di far finta di niente e sfilare il numero, lei cosa fa? Chiede! Cazzo, chiedeva davvero. Sorrideva, ed era bello vedere che lo scherzo la divertiva. Spiattellò il Negroni in faccia al tipo come per dire: tu sai qualcosa? Di chi è questo numero? E non si fermava… ripeté la scena con l’amico dell’amico dell’amico dell’amico. Da non crederci. Figura dimmerda all’orizzonte.
– Boss, non ce la faccio. Mi raccomando acqua in bocca, io scappo al cesso.
In fretta e furia mi chiusi la porta alle spalle e per sicurezza misi il cell in modalità aereo. Quando uscii scrutai i presenti, nessun tipo stava componendo il mio numero. La situazione parve tornata normale. Samanta beveva e parlava, la cartina era sparita e Boss aveva ordinato un altro giro.
– Com’è andata? – gli chiesi mentre mi sedevo.
– Se l’è infilato in tasca.
– Ma va’, non ti credo.
– Sì, giuro su Brando, lo ha messo in tasca. Se non si dimentica e se domani non mette i jeans in lavatrice, vedrai che prima o poi ti scrive o ti chiama.
– Grazie per avermi retto il gioco, non ne parliamo più.
Un caldo tropicale stagnava per la strada. Tra i tavolini sbilenchi e gli sgabelli infossati nel catrame, le zanzare banchettavano nella bonaccia estiva, le uniche a trovar sollievo dall’assenza del vento.
La mia non era tanto l’attitudine di uno spaccone, quanto quella del marinaio di ritorno da un lungo viaggio che necessita comunicazione sanguigna di un certo livello. La desideravo e la provocavo attraverso sguardi furtivi e silenzi immotivati, sperando di ottenere da parte di Samanta un fiume di curiosità e parole. Ma il linguaggio del corpo non propiziava l’accoglienza da me desiderata. Lei si allontanava, mi girava le spalle, rientrava un istante nelle mie coordinate e fuggiva di nuovo.
Nonostante questo, qualcosa del suo smorfieggiare mi donava pace interiore: finché io ero il suo pubblico, lo spettacolo non mi dispiaceva. Sapevo che sapeva. Ero io quello del numero. Eppure fingevamo entrambi disinvoltura e distacco.
– Dai, ultimo giro, – dissi a Boss, – mi sa che vado a casa.
– Sì, vado anche io. Domani porto il piccolo in piscina.
– Cosa faccio, la saluto?
– Ma va, è da sfigati. Cosa fai, vai lì, la interrompi e dici ciao. Chemmerda. Vattene e vaffanculo.
Buttammo giù il chupito di rum d’un sorso. Boss partì quasi di corsa e non si voltò indietro. Io invece mi fermai poco distante dal locale e mi accesi una sigaretta per riflettere. Sbirciai i grafici azionari sul cell e di nuovo ebbi l’impressione che stessi sprecando la vita. La vista mi andava insieme, non capivo molto di quello che stavo guardando. Poi un fischio attirò la mia attenzione. Il tram 33 prometteva fermate esotiche, ma io mi incamminai verso l’auto.
La riflessione durò una settimana, e il sabato seguente ero di nuovo al Bar Bah, questa volta senza Boss, da solo, libero di ordinare un Punt e Mes e di sedermi sulla mia panca preferita. Samanta era già lì, cazzeggiava del più e del meno a una tavolata di amici gay reduci dal pride pomeridiano, bandiere e trucchi in bella vista. Avrei fatto di tutto per non infastidirla, però la visuale non lasciava scampo: ci salutammo.
Uno di loro mi invitò. – Vieni, ti faccio la nostra bandiera.
Aveva lenti a contatto gialle e, annusando la mia incertezza, si avvicinò con in pugno una scatola di pastelli e mi riempì la guancia dei colori dell’arcobaleno. Scoprii in seguito che il tale era Roberto, detto Bob o la Regina, a seconda dei casi o di come lui stesso voleva essere chiamato. In gita a Milano per il fine settimana, abitava nel quartiere di Montparnasse – Parigi – dove alla morte di Modigliani la moglie del pittore si è buttò incinta del secondogenito da non ricordo quale piano.
Si sistemò sulla mia panca e prese a raccontarmi la recente storia strappalacrime di lui con un parigino pelato molto attraente, per quanto attraente poteva essere un uomo sempre a spasso con un chihuahua bianco a pelolungo, sui cinquanta, pancia e cravatta, star dell’immobiliare piombata come un angelo ubriaco fra le braccia pelose della Regina allo scadere di una folle notte d’inizio estate.
Quello che però Bob aveva scambiato per l’amore di una vita, altro non era che la scopata di una sera. Il capriccio di un ballo proibito sulla pista fradicia de La Douche ebbe culmine e conclusione tra le umide lenzuola di un letto a baldacchino in un palazzo signorile di Rue de l’Opera.
Tutto lì.
Quando il giorno dopo, all’ennesima chiamata su cellulare e all’ennesimo rifiuto di risposta, Bob apprese a malincuore l’interesse pari a zero del suo amore parisien, senza pensarci due volte si catapultò in Rue de l’Opera.
Era un pomeriggio in cui i prezzi al metro quadro si vendevano a meraviglia, l’ora in cui Bob puntò l’indice contro il citofono. Trovò il modo di convincere la cameriera algerina ad aprirgli la porta per farlo salire juste un instant. Quell’istante bastò.
Bob si tuffò nell’ampio salone, scardinò la cameriera dalla soglia, virò sul chihuahua bianco a pelo lungo scodinzolante, batté le mani tutto coccole e sorrisi, cavò fuori il guinzaglio dalla tasca, catturò il collo del cane e si esibì in un dietrofront degno della vecchia guardia napoleonica. – Passez mon bonjour à monsieurtestadicazzo, – disse infine alla cameriera che invano gli si era gettata alle costole.
In quella bella giornata di sole, Bob marciava per i boulevards della città trainandosi dietro il nuovo amichetto a quattro zampe, entrambi esaltati da una passeggiata diurna sui lastricati più chic d’Europa. Il genere di cane che non abbaia, squittisce, sembrava non infastidirlo, anzi lo spronava ad accentuare una cadenza di passo vivace. Bob sculettava in faccia ai passanti il buon esito del rapimento. Questo è il mio cane, strillavano le sue chiappe. Questo è il chihuahua bianco a pelo lungo che ho appena fregato a quello stronzo pelato. Così la prossima volta impara. Ben gli sta, bruttofinocchio.
Arrivati in Gare de Montparnasse, non si degnò neppure di alzare la testa al cartello luminoso delle destinazioni treni. Salì sul primo vagone capitatogli a tiro e legò il guinzaglio a una sbarra qualunque; un attimo dopo era di nuovo giù sulla banchina del binario. Senza chihuahua.
Poi il treno partì. Il lungo strascico di vagoni singhiozzò via scintillante e il riflesso del sole proiettò l’ombra di un addio malinconico. A Bob luccicarono gli occhi, un po’ a causa di quell’amore finito, un po’ per la gioia di aver ottenuto la sua personalissima rivincita.
Ecco, questo era Bob detto la Regina, e mi aveva appena pasticciato la faccia. Del cane più alcuna notizia.
Sconvolto dalla disgrazia, non mi accorsi che Samanta si fece avanti. – Roberto, lascialo stare. Non ti avrà raccontato la solita storiella?
Bob si alzò stizzito e io mi ritrovai Samanta accanto.
– Fammi posto, – disse.
Gli amici le avevano disegnato un cuore nella scollatura della maglietta, un cuore viola, piatto, senza battito. La X del tesoro, pensai. Scava. Rianima. Libera.
Era il tipo di serata troppo bella per essere vera. Il sole rosso a ovest, i bambini in libera uscita dopo la chiusura delle scuole, non un accenno di vento. Alberi senza ombre e marciapiedi in ebollizione. Lo spazio soffocava nella luce e le grida dei bambini arrivavano acute, con brevi attimi di ritardo. Ogni cosa era così precisa e così al suo posto, che iniziai a sudare freddo.
Eccoci là, uno-due fronte-retro.
Eravamo diventati il centro di una serie di figure concentriche: Isola, la circonvallazione, la tangenziale, la Lombardia, l’Italia, l’Europa, l’emisfero boreale, il mondo e Dio sa cos’altro.
La fissai. – Un whatsapp potevi inviarlo.
Scoppiò in una risata cardiaca, nel senso che rideva e il cuore finto le saltellava fuori dalla maglietta, o forse era il mio a battere così forte da picchiare colpi doppi per entrambi.
– Sapevi che ero io? – continuai.
– Lo avevo intuito.
Sorseggiai il Punt e Mes e si avverò una di quelle situazioni in cui immagini la vita degli altri proprio mentre ti scorre davanti la tua.
Lei: l’addio al Sud Italia, Milano, gli studi con lode, un lavoro creativo, un buco di appartamento, gli amici al bar, il centro del mondo.
Io: la scuola svogliata, un lavoro non mio, gli amici sposati, i libri non pubblicati, le ex mai lasciate.
Poi, appena cominciai a pensare ci siamo è fatta, saltarono fuori le questioni più banali.
Per uno strano vortice emozionale avvertii che nel momento in cui eravamo più vicini ci stavamo allontanando. Non era la prima volta che parlavo con una donna, ma quella storia delle farfalle è vera. In preda al mal di mare perdevo la bussola, dimostravo insicurezza. In realtà volevo stimolare un clima privo di tensione, ricreare toni invitanti come il richiamo di una sirena nelle notti di burrasca. La voce però mi usciva a monosillabi. Anche dire la cosa più stupida, anche lasciarsi andare, senza strategie o secondi fini, solo improvvisazione e reazione, anche così l’intenzione si traduceva in borbottii gutturali, nemmeno avessi avuto un’enorme patata in bocca o un’anestesia al molare. Inoltre pure lei, in quanto a banalità, non scherzava.
– Allora, non eri tu su Instagram… scusa, ti ho confuso con qualcun altro… sai, ieri parlavo con quell’artista… sono stanca… stasera mi sa che chiamerò un taxi.
Cercavamo la persona dei sogni e quando ce la trovavamo davanti innescavamo subdoli meccanismi di difesa. Eravamo più simili del previsto, io e Sem. Ma lei era abituata a condurre il gioco e mantenere la rotta, mentre io tendevo alla deriva.
– Se vuoi ti accompagno, – azzardai. – Ho la macchina qui dietro.
Troppo diretto e troppo goffo, pensai. Sapevo che il tempo a mia disposizione si sarebbe esaurito in un battito di ciglia e non volevo perdere l’occasione. Fra le mille iniziative che la circostanza avrebbe consentito, ogni decisione avrebbe forse ottenuto esito migliore, ma io non trovai nient’altro da dire, perché quello era il suo momento, l’unica possibilità che lei aveva di manifestarsi in forma concreta, perché il tono della voce e i sorrisi la restituivano più magnetica di come l’avevo immaginata da dietro al bicchiere, e perché, a dire il vero, per me non avrebbe fatto alcuna differenza, non ci sarebbero state distanze da ridurre, Samanta mi era ormai penetrata fino al midollo e l’handicap di non possederla a un palmo dal naso finì per evolvere in un’esperienza ottica che la rese ancora più bella. Fu lei a rompere il ghiaccio un’ultima volta. Pensò bene di non sbagliare la domanda dell’anno e la domanda era: – Si può sapere che diavolo di lavoro fai?
Dopodiché ci fu una pausa, libera e bianca come l’essenza di una pagina anonima…
Mi abbandonai a quel vuoto febbrile, mi venne in mente cosa mi aveva spinto fin lì. Un attimo prima Samanta non era possibile, ora la realtà aveva modellato le aspettative e si era adeguata al sogno, alla duplice Sem, quella che chissà dov’era e cosa stava facendo, quella che mi si materializzava davanti con tutti gli oggetti di scena al seguito.
Disse qualcosa a proposito di qualcosa e io capii che si stava alzando. Le labbra atteggiate a fischio, Samanta simulò l’armonia del vento improvviso che lei stessa si trainava dietro. Indossava occhiali Sandra Mondaini e pantaloncini gessati + sandali gomma modamare84. Era preda di un soffio perenne, spinta dall’instancabile rotazione terrestre intorno al proprio asse. Una balena bianca carica di tonnellate di stile. Ricreava distanza e desiderio e si portava appresso quel suo sorriso da perderci il fiato.
– Ciao, – la voce calda e cadenzata come la musica di un bacio. – Torno dai miei amici. Ci vediamo dopo, forse.
E a me dopo parve una misura di tempo incalcolabile, quasi l’eternità.
La osservai mentre si allontanava. Era bella in tutti i sensi. Aveva i capelli corti, ma sembravano più lunghi. Era alta come me, ma sembrava altissima. Forse erano ingannevoli anche le proporzioni del vento, ma a quanto potevo constatare la persona Samanta e l’elemento aria esistevano alla sola condizione di viaggiare insieme.
Indirizzò il timone verso rotte ignote. Veleggiò sul cemento, solcò i mari caraibici, circumnavigò l’Africa, sconfisse i ghiacci siberiani, lo tsunami, le tigri di Mompracem. Volò controcorrente sul Fiume Giallo e si immerse nel Sol Levante, giù giù fin sotto la linea rossa del tramonto. Adoperava il giorno per fondersi con l’oscurità, proseguiva a cavallo dei fusi orari, di ora in ora, ogni notte, sospingeva il tempo incontro a nuove stagioni, sempre le stesse, che tramite lei cambiavano il senso di quelle passate con le prossime a venire, vitanaturaldurante.
Poi chiusi gli occhi e tornai all’ultimo sorso di Punt e Mes. Il ghiaccio si era squagliato e sapeva di acqua sporca.
Incontrai Bob al cesso.
– Non te la prendere, – disse col tono di uno che la sapeva lunga. – Sem è così, è attratta dagli stronzi.
Andai alla cassa e pagai. Samanta stava ingollando l’ennesimo giro in mezzo a due che non avevo mai visto.
Stavolta decisi di salutare. Mi feci largo tra la folla al bancone.
– Dovresti rivedere te stesso sotto un’altra ottica, – mi suggerì. – Ti stai arrendendo alla possibilità di altro.
Queste, le sue ultime parole.
C’era stato un momento, mi era sembrato che volesse aggiungere qualcosa, chiudere con classe, senza rancore. Proprio come intendevo io: inserire l’eleganza della parola giusta in una frase perfetta. Una frase che ora mi sfugge. O forse entrambi volevamo dimostrare all’altro che in realtà avevamo esaurito ogni argomento ancor prima di cominciare a discutere. Infatti non dicemmo niente. La sentii irrigidirsi sotto la stretta del mio abbraccio; voleva essere un ringraziamento, venne scambiato per insistenza. Un bacio sulle guance e ognuno per la sua strada.
Il pensiero le si collegò al cervello dopo che io avevo intrapreso una decina di passi. Si voltò e sollevò la mano per salutarmi. Ma ormai era tardi. Mi resi conto che è una persona: se la tratti come desiderio, non si avvera.
La spiai dalle vetrate mentre mi scortava con lo sguardo, scivolai fra la gente sul marciapiede e i suoi occhi mi seguirono come si insegue un ricordo dal lungo strascico, un rimpianto meno lontano della strada per arrivarci.
Era finita la serata, era finita Samanta.
Mi stupii di non provare alcun dolore. Non mi disperai. Al contrario, me ne andai con la calma dello sconfitto, sapendo di aver dato il possibile e che non c’era altro da fare. Stanco e libero di completare il fallimento di un cambiamento mancato. Il desiderio di libertà nasconde il rischio della solitudine. Ma col tempo avevo imparato a non sentirmi mai solo. Il centro dell’isola, del resto, mi confermava che non ero né l’unico né l’ultimo a perdersi nell’incanto dell’oceano. Eravamo tutti zoppi, tutti diversi e tutti eravamo uguali, sulla stessa barca senza contatto, ostaggi di una spinta uguale e contraria sulla superficie dell’acqua, per scongiurare un tuffo negli abissi delle nostre coscienze.
Bassa nel cielo, una luna gigante sorvegliava la marea di persone. Riuscivo a vederla bene. Allungai un braccio per toccarla. Mi si rivelò in tutta la sua rotondità: tanto vicina quanto lontana, piena di fascino e gonfia di viola, aveva il sorriso di Samanta che augurava buonanotte al mondo.
Aprii la portiera, col cuore in folle e una smorfia ebete stampata in faccia. Lasciai la frizione e la macchina fece un balzo in avanti, ingranai una specie di ripartenza verso nuovi orizzonti, nei luoghi non segnati sulle mappe.
Quella notte mi addormentai dimenticandomi di controllare i futures americani. Sognai una balena spiaggiata che scavava alla ricerca del tesoro. E io che le davo una mano a spalare chili di sabbia.
di Alessandro Gattuso
Alessandro Gattuso voleva girare il mondo, è finito per trattorie. Se non dorme prende appunti, se dorme viaggia in treno. Là, da qualche parte, una storia lo aspetta.
Illustrazione di Andrea Stendardi
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