Alle diciotto l’ufficio chiude e tutti se ne vanno e nessuno saluta nessuno. Nessuno chiede a qualcuno i programmi per la sera, se ha voglia di un aperitivo, come stanno i bambini. Nessuno parla con nessuno e ognuno è solo.
Alle diciotto ognuno afferra la propria valigetta di cuoio marrone scuro – tutti nell’ufficio hanno una cartella di cuoio marrone scuro – e chiude la fibbia color argento – ogni valigetta ha una fibbia color argento.
I movimenti meccanici di un’esercitazione perpetua:
~~~~~~~~~~sedia indietro
~~~~~~~~~~~~~~posizione eretta
~~~~~~~~~~~~~~~~~sistemata a giacca e cravatta – gli uomini
~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~stirata al tailleur – le donne
~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~valigette nella mano destra
~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~la sinistra riposiziona la sedia
al centro
esatto
della
scrivania
;
sulla scrivania lo schermo del pc, la tastiera del pc, un portapenne con una penna rossa e una nera, un piccolo calendario da tavolo – su ogni scrivania resta solo lo schermo del pc, la tastiera del pc, un portapenne con una penna rossa e una nera, un piccolo calendario da tavolo. Sul calendario solo numeri ingabbiati in fini riquadri: i riquadri sono fini e neri. I numeri sono blu.
Alle diciotto ognuno scende tre rampe di scale e nessuno parla con nessuno. Quarantacinque scalini: novanta ticchettii di scarpe moltiplicati per il nostro numero.
Ognuno di noi ha il posto auto assegnato. Il mio posto è il numero trentaquattro.
Ognuno di noi ha un’auto aziendale. Berline grigio non metallizzato.
Il parcheggio è interrato. Le auto riemergono in strada.
Ognuno di noi va.
Tredici chilometri e ottocentododici metri.
Il mio percorso da sette anni, quattro mesi, sei giorni.
Avanti. Indietro. Avanti. Indietro.
Guido e mi concentro solo sulla strada. Non bado all’intorno né al buio né alla luce. La strada. Tranne quando passo dal ponte dei gabbiani.
Siamo lontani cento miglia dal mare e loro sono lì sempre, ogni giorno, sempre.
Due curve sulla destra e un breve rettilineo e una curva sulla sinistra. Poi l’autostrada si raddrizza. Il ponte è lungo seicentosessantacinque metri e mezzo. L’ho misurato. La segnaletica dice: settecento metri. Non riporta l’altezza. Non so cosa ci sia sotto.
Loro sono lì. Loro sono sempre lì. A decine. Volteggiano nel vuoto interpretando le correnti. Non vanno da nessuna parte. Mai. Non arrivano da nessuna parte. Mai. Stanno lì, sempre. Ogni giorno. Tracciano cerchi e si abbassano fino a scomparire e poi tornano su. Risorti. Eterni.
Impiego tra i quindici e i sedici secondi per percorrere il ponte e questo è l’unico momento in cui sposto gli occhi dalla strada sulla sinistra, al mattino, sulla destra, la sera. Ogni mattino. Ogni sera.
Non viaggio.
Non prendo ferie.
Godo di ottima salute.
Vado al lavoro.
Torno dal lavoro.
Ogni sera rientro nel mio appartamento e appoggio la valigetta di cuoio marrone scuro con fibbia color argento sulla consolle all’ingresso. Mi spoglio, faccio la doccia, indosso uno dei miei pigiami: i miei pigiami sono blu. Ceno. Una scodella di minestra. Mi affaccio alla finestra e guardo passare la donna delle ventuno. La donna piange. Leggo otto pagine del mio libro. Vado a dormire. Leggo sempre otto pagine del mio libro prima di dormire.
Ogni mattina mi sveglio alle sei e quindici. Mi rado. Faccio la doccia. Indosso un vestito pulito. Alle otto in punto l’ufficio apre e tutti arrivano e nessuno saluta nessuno.
Una volta ho sognato di uscire dall’autostrada. Sette anni, quattro mesi, sei giorni fa.
Ho sognato la parte sottostante del ponte.
Io non sogno. Non lo faccio mai.
C’erano centinaia di gabbiani. Mi facevano paura ma sono sceso lo stesso dalla macchina. Sotto al ponte non c’era nulla. Solo terra e immondizia e gabbiani.
Sono sceso dall’auto e ho fatto qualche passo e c’era silenzio e i gabbiani erano tutti a becco spalancato ma le loro grida non esistevano. Ho fatto qualche passo ma loro non si muovevano. Non volavano via, ancorati al suolo come piante cattive. Ho fatto qualche passo. La terra era solo smossa e il sangue aveva appena iniziato a rapprendersi. La donna era solo un corpo nudo e morto. L’ho riconosciuta. La donna delle ventuno. Mi sono guardato le mani e il vestito e tutto era rosso e i gabbiani serravano il becco. Ho fatto qualche passo. I gabbiani stavano divorando ciò che restava degli occhi di un uomo. L’uomo era solo un corpo nudo e morto. L’ho riconosciuto. Ero io. L’urlo dei gabbiani è esploso nella testa dell’uomo nudo e morto e poi anche nella mia testa e poi i gabbiani si sono alzati in volo, tutti insieme, e io mi sono trovato alla finestra del mio appartamento. La donna delle ventuno era ferma per strada e mi sorrideva e mi chiamava: amore e diceva: apri la porta e diceva: ti amo.
Alle otto l’ufficio apre e tutti arrivano e nessuno saluta nessuno.
Alle diciotto l’ufficio chiude e tutti se ne vanno e nessuno saluta nessuno.
Leggo sempre otto pagine del mio libro prima di dormire.
La donna delle ventuno piange.
Io non sogno. Non lo faccio mai.
di Gianni Somigli
Gianni, incisano, ha suo malgrado una quarantina d’anni: adora la terra agricola e le nuvole, la filosofia e il cinghiale in umido. Fa i tatuaggi, disegna, scrive. I suoi racconti sono stati pubblicati su: Salmace, Malgrado le Mosche, Blam, Spore, Voce del Verbo, Storie a Catinelle, Salmuria, Efemera, Quarta Corda, Verde, LetteraturaHorror.it.
Illustrazione di Andrea Innocenti
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