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Alla mercé di tutti noi
Parole di Iris Greotti ~ Illustrazione di Andrea Stendardi
Posted in Incubi on 17 Febbraio 2022 15 min read
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“Sento migliaia di occhi che bruciano sulla pelle, sa?” Clotilde si sfrega il naso. “Be’, forse non sono proprio migliaia, ma due sicuramente sì. Cioè – oddio – forse sicuramente non è la parola adatta. Nel senso, so che è solo un’impressione, ma intendo dire che sento – anche se razionalmente so, glielo ribadisco, che non c’è nessuno – sicuramente almeno due occhi. Percepisco proprio come se qualcuno osservasse con perizia ogni mio movimento. La pelle mi formicola come in quel crudele momento in cui si sale sull’autobus, ha presente no? Quando si sale su un autobus semivuoto e tutti quelli che ci sono sopra sono già seduti e tu sei lì, l’unico in piedi, e non riesci a timbrare il biglietto e la macchinetta continua a dare errore ed emettere un suono sordo e le tue mani sudano. E anche se hai gli occhi fissi sulla schermata rossa dell’obliteratrice, sai che tutti ti guardano. Lo senti. Lo senti che tutti ti guardano. In fondo sai che non gliene importa davvero nulla di te, sei solo una distrazione per loro, ma non puoi fare a meno di sentire i loro sguardi pizzicarti la pelle. Capisce no? Immagino di sì perché credo succeda un po’ a tutti. Pensi come sarebbe bello il mondo se la gente semplicemente smettesse di ostinarsi a scandagliare l’imbarazzo altrui! Comunque, prenda quella sensazione – di vulnerabilità, giusto? – e la moltiplichi per un po’ di volte. Non saprei quante. Non molte direi perché è già di base una sensazione molto forte. Lo faccia ed ecco! Così è come mi sento, solo che se muovo la testa non vedo nessuno rifuggire il mio sguardo, nessuno saettare gli occhi verso il finestrino o lo schermo del cellulare. Non c’è niente, capisce? Alzo gli occhi e non c’è niente. Ci sono solo io. Però continuo a sentirmi osservata. So che non esistono le persone invisibili e che nessuno vorrebbe mai spiarmi, però – sa com’è – il pensiero a volte viene. Santo cielo, mi sento talmente controllata! Non faccio quello che vorrei fare o, se lo faccio, lo faccio sforzandomi di farlo nel miglior modo possibile. Così se qualcuno mi sta guardando davvero almeno non può rimproverarmi niente. Magari se non faccio nemmeno un errore, mi dico, se divento noiosa solo come chi fa sempre tutto bene sa essere, ecco, magari si stufano di osservarmi. Ma non funziona! E la cosa peggiore è proprio questa: non so come farlo passare. Non è come la fame, no? In quel caso basta mangiare, butti giù qualcosa e sei a posto. O la tristezza, lì piangi e stai un po’ meglio. Questa cosa potrebbe passare solo se avessi le prove di non essere guardata, ma non si può chiedere di distogliere lo sguardo a qualcuno che non esiste. Insomma, a lei capita mai?”
Clotilde guarda con sincero interesse la donna che le sta davanti, ma quella si limita a tirare un sorriso di circostanza.
“Fanno 53 euro e 89 centesimi”, le dice con il tono neutro della cortesia.
Clotilde sospira e nell’allegra sinfonia dei registratori di cassa finisce di imbustare l’ultimo pacco di biscotti. Un’arancia è scivolata fuori dal suo piccolo sacchetto e si rotola impavida nella sportina, tra flaconcini di detersivo al pino silvestre e scatole di penne rigate. Clotilde la rimette a posto e tira fuori il proprio borsellino in cuoio sciupato. Pesa parecchio, ma è una massa di soli spiccioli.
“Carta o bancomat?”
È con un lapidario “carta” che Clotilde suggella la propria confessione alla giovane cassiera del discount. Con un leggero sbuffo da muscoli provati e un rantolante “oh issa” da anziana di provincia, si carica delle buste straripanti dei viveri di quella settimana e, maledicendosi per aver comprato così tante bottiglie di acqua tonica, esce da quell’antro di aria condizionata e luci fredde.
Gli occhi incrostati di mascara della cassiera le solleticano la base sudata del collo.
Il parcheggio è semi-deserto e l’afa del pomeriggio accoglie Clotilde con le sue dita opprimenti. Il sole scintilla sui tettucci cromati di piccole familiari ammaccate e si rifrange sui parabrezza non lavati con la bellezza polverosa di un’estate di periferia. Il cielo è di un azzurro così puro da far male. Sassolini di cemento sbrilluccicano sotto la luce forte.
Il parcheggio era sempre stato così grande? Così scoperto?
Clotilde si sente formicolare la nuca.
Magari questa volta è per le videocamere di sicurezza, si dice. Dà una rapida occhiata alla desolazione che la circonda. Sì, deve essere per forza così. Le videocamere, certo. Sono lì apposta del resto, giusto? Per far sentire la gente osservata. Sarebbe strano se non se ne accorgesse. Clotilde annuisce, stringe i manici in tela tagliente delle sportine e scalpiccia sull’asfalto caldo fino alla sua auto. Piccola come una formica in quello spazio aperto enorme
Qualcosa di impalpabile le brulica sulla schiena sudata, qualcosa di impalpabile e crudele come uno sguardo.
Si affretta a stipare le buste nel baule per il resto vuoto e sale in macchina. L’acciaio bollente della cintura le scotta una coscia mentre lei si torce su se stessa per spiare i sedili posteriori. Solo cartacce di merendine al caramello e vecchie bottigliette di plastica ancora piene per metà. Non che si fosse aspettata qualcosa di diverso. Clotilde fa un risolino nervoso. Sarebbe stato da folli controllare sul serio che non ci fosse nessuno dietro di lei.
E allora perché l’hai fatto?
Quel pensiero è inghiottito dal rombo d’accensione del motore.
Ecco, si sente già meglio. Ora è certa di essere da sola. Clotilde sistema lo specchietto retrovisore perché inquadri meglio i sedili posteriori. Più nessuna videocamera indiscreta. Si tira la gonna fino alle ginocchia. Più nessuna presenza immateriale. Quasi le viene un colpo quando scambia la propria borsa per un corpo umano.
Altro risolino nervoso.
“Che sciocca”, si dice. Risolino. Esce dal parcheggio con una serie di manovre brusche e distratte. Fortuna che c’è solo lei.
L’aria nell’abitacolo è soffocante e Clotilde annaspa mentre aspetta che il climatizzatore faccia il suo lavoro. Di abbassare i vetri non ci pensa nemmeno. Lo smog di milioni di tubi di scappamento invaderebbe la macchina, potrebbe entrare qualche insetto, il suo viso sarebbe a diretto contatto con il voyeurismo di chiunque.
Ti vedrebbero tutti così bene!
Le mani piene di pellicine di Clotilde sudano sulla superficie calda del volante. Sul suo viso un rivolo di sudore traccia la sua viscosa scia.
Non c’è quasi nessuno in giro per quel primo pomeriggio di melassa.
L’automobile scivola per le strade più velocemente di quanto non sarebbe consentito. Vista dall’alto sembra un grosso e vecchio coleottero. Supera i limiti di velocità nonostante Clotilde percepisca la presenza di un autovelox ad alta precisione ogni due metri.
Ci sono videocamere per le strade pubbliche?, si chiede. Sì. Per forza, il traffico va monitorato, supervisionato, immortalato. Non c’è nulla di più bello di una lunga coda di vetture scintillanti e spazientite per il servizio del telegiornale pomeridiano. Alla gente piace sempre vedere le file e gli ingorghi che ha evitato. Quindi non c’è dubbio. Su una statale frequentata di sicuro ci deve essereun sistema di sorveglianza che si occupi di riprendere congestioni stradali, tamponamenti, code lunghe chilometri e automobilisti sconsiderati.
Clotilde arriva a casa senza aver incrociato più di quattro macchine e un motorino.
L’intonaco nuovo di zecca della sua microscopica villetta la saluta con un abbacinante buongiorno. Le cicale friniscono nell’erba rigogliosa del suo giardino, il sole scivola tra le inferriate bianche e si riflette sulle finestre chiuse. Un cane abbaia dal retro della casa accanto.
Clotilde scende dall’auto, svuota rapida il baule e si avvia a passetti veloci sul viottolo bollente, barcollando sotto il peso delle sporte strabordanti.
Così è come si devono sentire le modelle sulla passerella, pensa.
Ha l’impressione di essere soggetto del divertimento voyeuristico di qualcuno. E pensa anche di sapere chi. Tutti quei maledetti anziani spioni che albergano nelle deliziose casine che circondano la sua. Odia i suoi vicini, non li conosce ma li odia. Sa che adorano osservarla, celati dietro le loro tende merlettate, mentre lei sbuffa con la spesa in spalla sotto il sole di un luglio impietoso. Sa che non aspettano altro che le uova le cadano sui ciottoli tondi, che il latte le si rovesci sullo zerbino nuovo o che un manico delle borse si spezzi insieme alla sua schiena. Dalle loro fresche stanze ombreggiate, attendono solo di avere il privilegio di osservare una sventura in diretta e di abbeverarsi con l’umiliazione altrui.
Per poco non vengono soddisfatti quando Clotilde scambia le ali di un merlo svolazzante per i bracci meccanici di un drone-spia e quasi inciampa. L’uccello si posa sulla sua grondaia e la fissa con quei due suoi chicchi di pece.
“Che sciocca”, si ripete. Risolino nervoso. Non è nemmeno scientificamente possibile che i dronipossano andare a nascondersi dietro le nuvole sfilacciate per spiare indisturbati le sue vittime… O forse lo è? D’un tratto il merlo non le pare più così rassicurante. Le veneziane della casa accanto oscillano pericolosamente.
Clotilde sente un groviglio colloso sbocciarle in mezzo alla gola e non aspetta nemmeno di aver aperto tutta la porta per fiondarvisi attraverso. Abbandona la spesa sul laminato grigio del salotto e si precipita a tirare le tende. 
Per non far entrare il sole, si giustifica.
Per non far entrare lo sguardo degli altri, si sforza di non pensare. 
Ora è a casa sua. Niente può farle male.
Serra la porta e tende l’orecchio, la stessa arancia audace le rotola fra le caviglie. Possibile che ci sia qualcun altro? Clotilde deglutisce un groppo di saliva, purtroppo non può fare lo stesso con la palla di angoscia che le si è conficcata a ridosso dell’ugola. Ci sono le inferriate, si tranquillizza. La porta era chiusa a chiave. Si blocca.
Era davvero chiusa a chiave?
La memoria le dice di sì. Clotilde sforza un sorriso. È pieno giorno. Non può essere entrato nessuno. Dicendosi di doversi lavare le mani, si dirige con movimenti nervosi in bagno. Lancia un’occhiata alla cucina: deserta. Passa davanti alla sua camera: come l’aveva lasciata. Lo stesso il bagno. Clotilde sospira e torna in salotto, le mani sudate e sporche come lo erano prima.
L’orologio ticchetta imperturbabile e il latrato del cane dei vicini la raggiunge attutito mentre lei inizia a mettere a posto la spesa.
La pelle le pizzica. Sulla nuca pullulano i tremitii pruriginosi della vulnerabilità.
Clotilde tenta di inghiottire della saliva che non ha più. Abbandona le buste sul tavolo e si reca alla finestra. Il prato scintilla sotto al sole, la strada è deserta, un’alitata di vento smuove appena una cartaccia bianca.
Clotilde sorride. Fa così caldo. Meglio abbassare la tapparella.
“Giusto un po’”, si dice. Per smorzare i raggi infuocati dell’estate. La tapparella strepita quando si abbatte sul davanzale. Clotilde accende la luce e finisce di estrarre le bottiglie di acqua tonica dalle sporte. È tutto a posto. Avrebbe finito di sistemare la spesa e poi si sarebbe concessa una lunga doccia rigenerante. Probabilmente il caldo le stava abbassando la pressione o qualcosa di simile. Gli scherzi del caldo, tutto qui.
Grappoli di bulbi oculari negli angoli del soffitto. Nervi ottici in ogni crepa.
Clotilde scuote la testa con forza. Fingendo nonchalance si avvicina al comò e ruota la testa della sua bambola di porcellana verso il muro. Copre con una confezione di plum-cake i visi risoluti dei politici sul giornale e abbassa un portafoto contenente uno suo scatto al matrimonio di sua sorella. Si mordicchia un’unghia. Perché non passa?
Guarda il soffitto. No, nessun foro. Scruta le pareti. Tutto a posto. Come sempre.
La pelle le brucia. 
Un grande teatro e tu sei sullo schermo, nuda.
Clotilde abbassa le tapparelle anche della cucina. Fa caldo, ma sui suoi avambracci prude la pelle d’oca. Le scapole sono rigide e le fibre muscolari corde di violino.
Pupille grosse come palle da basket penzolano al posto delle lampadine, iridi piccole come elettroni ruotano non viste nella materia.
Clotilde serra la mascella, ma poi si costringe a rilassarla. Si umetta le labbra. No, non ha senso. Non c’è nessuno.
Non è la stanza che pullula di occhi ma la mia testa, si dice. A chi non capita? È normale, tutti viviamo nell’incubo di ritrovarci a bruciare al centro dell’attenzione di chiunque altro. Tutti, almeno una volta nella vita, sogniamo di essere nudi in una stanza stipata di conoscenti vestiti di tutto punto. Tutti copriamo con l’asciugamano la serratura del bagno ogni volta che ci entriamo anche solo per lavarci le mani e rinunciamo a svestirci se avvertiamo la presenza di un insetto. Non c’è motivo di allarmarsi.
Volti di marmo in cui l’unica cosa che si muove sono i bulbi molli degli occhi. E che seguono te.
Non è la stanza che pullula di occhi ma la mia testa, si ripete costringendosi a respirare a fondo. I polmoni non sono mai stati così inerti.
Un garbuglio di sguardi in cui la matassa sei tu. Non ti perdono di vista un attimo.
Clotilde riprende a mangiarsi l’unghia, quella del pollice. Non è la stanza che pullula di occhi ma la mia testa. L’epidermide imperlata di sudore le sobbolle, sfrigola e frigge.
Sono dietro di te, ma anche davanti e pure a destra e a sinistra. Affoghi in un oceano di sclere e capillari rossi. Tu non li vedi, ma loro eccome se vedono te. Il loro unico scopo è guardarti. Non sanno fare altro, non vogliono fare altro.
Clotilde prova a bere un sorso di acqua tonica, ma le mani le tremano e la rovescia. Una chiazza appiccicosa le si dipana sulla gonna e sul tavolo.
Hanno visto anche questo. E come gli è piaciuto. Vedono ogni stilla di liquido che cola sulla tua pelle esposta. Ogni fremito che hanno i minuscoli muscoli della tua faccia. Ogni pellicina, ogni rimasuglio di cibo incastrato fra i tuoi denti, ogni cispa impigliata fra le tue ciglia. Ogni sospiro, ogni sussurro, ogni bestemmia. Vedono tutto e nel dettaglio e non c’è nulla che tu possa fare per impedirlo. Non solo ti vedono, ma ti guardano, Clotilde. Non si limitano a percepirti, non prendono atto e basta della tua esistenza. Ti scrutano, ti giudicano, si fanno delle opinioni.
A Clotilde cedono le ginocchia. Le viene voglia di urlare. Perché? Perché non passa?
“Non è la stanza che pullula di occhi ma la mia testa”, si dice con voce pastosa. Si raddrizza.
Li senti, vero? Seguono tutti i tuoi passi con attenzione. Non c’è nulla che possa sfuggirgli. Nulla. 
“Non è la stanza che pullula di occhi ma la mia testa”, si ripete andando verso il bagno.
Non gli farai pena. O forse sì, ma continueranno comunque a guardare. Forse nemmeno sanno che sono loro la causa, ma non importa. Staranno con te fino alla fine.
“Non è la stanza che pullula di occhi ma la mia testa.”
La vediamo che abbassa le tapparelle di nuovo. Che spegne la luce.
Le dita le tremano.
“Non è la stanza che pullula di occhi ma la mia testa.”
Chiude la porta e si rannicchia in un angolo.
“Non è la stanza che pullula di occhi ma la mia testa.”
Vediamo i capelli sottili scivolarle sul viso contratto. La guardiamo abbracciarsi le ginocchia nel buio, nascondersi la faccia fra le braccia costellate di nei.
Rimane a rifugiarsi nel suo piccolo angoletto oscuro.
“Non è la stanza che pullula di occhi ma la mia testa.”
Ma tanto non importa.
Noi possiamo arrivare anche lì.

di Iris Greotti

Iris Greotti è nata il 29 giugno del 2001 a Brescia. Dopo aver frequentato il Liceo delle Scienze Umane si è iscritta alla facoltà di Scienze della Comunicazione. Scrive per combattere la desolante ripetitività dell’esistenza e per esorcizzare la prospettiva di un futuro da disoccupata.

Illustrazione di Andrea Stendardi


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