Non sono un uomo, sono un occhio.
Può essere che sia stato una qualche sorta d’essere umano, in un tempo trascorso che non riesco a definire. Ma, di certo, non lo sono più. Adesso ho solo la vista e un contratto dal vincolo eterno.
Non ho apposto io la firma e neppure ho avuto il tempo di leggere con attenzione le clausole, ma compio questo dovere da quando all’uomo è sovvenuta l’idea di contare il tempo. Ho solo il mio occhio, un paio di gambe, un abito scuro e un compito da svolgere. Un dovere inesauribile in continuo rinnovamento.
Nessuno può vedermi, o sentirmi parlare ad alta voce in questa stazione degli autobus; nessuno ricambia i miei sguardi indagatori, nessuno inorridisce alla mia vista, nessuno che mi indichi stranito; ma nessuno sfugge alla luce riflessa sulla mia retina, e io non posso più dimenticarli una volta che la loro immagine capovolta si è impressa a fuoco nel mio encefalo rigonfio. Ogni abitante di questa città, e di tutte le altre, possiede un paio di occhi, ma si limita a sfruttarli quel tanto che basta per cogliere il numero degli autobus in partenza e in arrivo, per giudicare la rotondità più o meno geometrica di un paio di natiche irrigidite dal tentativo di recuperare il ritardo correndo. Non salgo a bordo di nessun veicolo: il mio compito è aspettare, non andare.
Non posso sapere dove andare finché la Signora non mi segnala nome e indirizzo e mi ordina di accompagnarla. Mai un invito, mai un per piacere: abbaia senza produrre suoni. Ricevo il comando senza sentirlo, una comunione d’intenti ben oliata, affinata dai secoli.
Arriva sempre a notte fonda, appena dopo la fine delle corse notturne dei mezzi di superficie. Non sopporta la luce, e nemmeno io. La sua pelle grinzosa pare uscita piuttosto bene dai millenni di ferocia che ha attraversato; ha l’aspetto di una vedova ben curata e di poche parole, dal ghigno obliquo, un’anziana donna di mondo che si mantiene in uno stato di costante esilio rispetto a tutto ciò che le si avvicenda intorno.
Buonasera, Occhio!, mi saluta.
Buonasera, le rispondo come sempre.
Vorrei poterti vedere.
Se Lei potesse vedermi, io non avrei un lavoro.
E, dimmi, ti piacerebbe essere disoccupato?
Ci penso spesso, ma la noia ogni volta mi ricorda che non avere niente da fare è l’anticamera della fine. Cerco una qualche forma di sagacia che non riesco a trovare.
Hai paura?, incalza con un tono bonariamente consolatorio.
No, ma mi piacerebbe.
Sono lieta che tu abbia imparato. Magari, un giorno, impareranno anche gli uomini.
Cosa? Che ci accorgiamo dell’importanza di qualcosa solo quando non possiamo più goderne?
Solo quando non lo puoi più raccontare a nessuno, soggiunge con voce sottile, aliena ad ogni turbamento o eccitazione, come stesse parlando attraverso una porta chiusa.
A chi tocca, oggi?, chiedo, spostando l’asse verso le incombenze professionali.
Ottavio Malfattore, viale Duca degli Abruzzi, 34.
Anni?
Sempre abbastanza.
Figli?
Non ne ha avuto il tempo.
Ha fatto qualcosa di particolare?
Ha vissuto abbastanza.
Quanto è abbastanza?, una nota di sarcasmo guizza sopra l’intonazione della mia voce. Mi allunga un foglio di carta ruvida arrotolato. L’inchiostro del testo è sbavato, come fosse caduto in una pozzanghera.
Camminiamo?, propongo alla Signora.
Come sempre.
Procediamo indolenti, senza fretta. La città è inquieta. La colpa non è dell’urbanistica, della viabilità, dell’innocenza perduta dei cittadini; ognuno è convinto di possedere certezze incontrovertibili su quali siano le forze che regolano il mondo, ma non ne hanno idea. Un cimitero di edifici che non conosce riposo, né vita. Alla fine, cadono tutti. Le vibrazioni telluriche trasmesse alle gambe già sbilenche da una terra in procinto di frantumarsi sotto i piedi: crolla tutto in un baleno. Comunisti che invocano Dio, cristiani che vomitano tutte le loro ignominiose colpe macchiando la tiara del prete venuto a dar loro unzione. Pochi sono coloro tanto ostinati da trascinarsi dietro i più ignobili segreti. Il nostro passaggio in queste strade turba il sonno di chi riposa sul divano illuminato dalla luce algida del televisore, spezza le risate di chi cerca ancora la felicità fra i tavoli di un locale; qualcuno si affaccia alla finestra, cerca di scorgere l’intruso nella sua via, i flebili lumini delle braci delle sigarette strette tra i denti dei nottambuli sul marciapiede.
Il fascio di luce arancione di un lampione si spegne in un cono d’ombra appena ci posizioniamo sotto di esso: abbiamo il favore del buio. Da che mi ricordi, non ci è mai stato negato. Abbiamo un contratto, obblighi a cui adempiere, una pubblica funzione da svolgere. Parti integranti dell’ecosistema.
Sai, Occhio, da quando scettici, stoici ed epicurei sono spariti dalla circolazione, il nostro lavoro sembrava mancare di passione. È raro che la Signora si sbottoni in questo modo.
Non le piace sentirsi supplicare?
La gente non ha paura di morire, quanto più di lasciare la vita. Quella che oggi considerano tale, quantomeno. Adesso è tutto un gioco, come se il più grande rammarico in punto di morte sia dover spegnere la televisione, compiacersi di non dover più sopportare il travaglio delle code davanti alle casse.
In tutto questo tempo non l’ho mai sentita addentrarsi in riflessioni tanto paludose. Non ha mai costellato le sue rare esternazioni con note di rammarico così visibili. Non credevo che conoscesse rammarico. È probabile che non lo conosca così come credono di conoscerlo tutti gli altri.
In natura ogni componente ricerca l’equilibrio con chi lo circonda e da cui dipende. La chiamano omeostasi. L’homo sapiens non è diverso; la burocrazia, in sostanza, assolve al compito di limitare e impedire derive incontrollate di tutto ciò che possa divenire un problema, creando un equilibrio sociale tra le parti. Limitandone l’agire. La Signora è una burocrate, uno strumento di moderazione naturale; porsi domande e formulare speculazioni non rientra nei suoi incarichi, per quanto ne stia sviluppando l’inclinazione. Di certo, non rientra nei miei. Lei non vede nulla, perciò pensa; io vedo tutto, perciò non mi preoccupo di pensare. Compensazione. Occorre la paura per rassicurarci di essere vivi, occorre la morte per dare un senso al passato, ci vuole il buio perché si possa apprezzare l’aurora. Luoghi comuni, certo, ma sono pur sempre il nostro lavoro. È possibile cavar fuori qualcosa di ragionevole dalla morte soltanto se si è ancora in vita, ma ci si crede sempre lontanissimi da quel momento. Lei, non è l’epilogo di qualcosa, non è il termine di un viaggio. È l’ombra due passi alla nostra sinistra che ci accompagna per tutto il tragitto. Non ho mai incontrato qualcuno che sia riuscito a dire qualcosa di veramente incisivo, una volta resosi conto di non aver più molto tempo per pensarci. Alcuni vivono una vita intera credendo di portarsi in tasca un aforisma il cui eco sarebbe tuonato per molti secoli a venire, e, di solito, sono quelli che pensano alla colazione, o blaterano cose a proposito dei tappeti, dei juke-box e dei flipper che si erano ripromessi di comprare per tutta una vita, ma non l’avevano mai fatto. Nessun uomo dovrebbe mai crepare senza aver posseduto un flipper, senza mai aver infilato una moneta in un juke-box.
Gli epitaffi sulle tombe, massime di incredibile valore, sono un compito che spetta ai sopravvissuti. Quell’invocare i posteri e parlare ai vermi di cui parlava Céline. Ricordo Oscar Wilde: «Io e la mia carta da parati stiamo lottando all’ultimo sangue. Uno dei due deve andarsene». O Walt Whitman, che disse di dover cagare, si alzò, claudicò con lo scroto penzolante verso il cesso e si sedette sul cacatoio in zinco e porcellana Stone & Son installato da neanche una settimana, e morì senza aver tirato la catenella. La morte è un luogo comune, qualcosa che prima o poi capita a tutti, come la prima boccata di sigaretta o un bacio a una ragazza brutta che non avremmo mai pensato di baciare.
Controllo spesso la mia cipolla e tengo aggiornata la Signora.
Percorriamo l’interno deserto del mercato coperto per risparmiare tempo, scendiamo lungo i giardini e costeggiamo il Ministero del Tesoro, fino a un quartiere di cui non ricordo mai il nome.
La nostra giurisdizione finisce subito prima dell’alba, ricorda la Signora con anticipo.
Manca poco, dico. Tento di rassicurarla.
Scorgo la facciata barocca di un edificio che conosco bene, dall’altra parte dell’incrocio. Stavolta, ho la sensazione che ci sia qualcosa di sbagliato. Siamo davanti a un palazzone grigio stinto, quel vecchiume architettonico anni sessanta diventato vetusto e decadente senza poter aspirare all’eleganza dell’antico. Un obbrobrio mastodontico color pastello. Condominio residenziale per borghesi desiderosi di vivere quanto più possibile al di sopra delle loro possibilità, o per anziani senza eredi determinati a spendere i risparmi di una vita in un’agenzia di pompe funebri.
Una strada divide me e la Signora dall’ingresso del palazzo, ma potrei assaggiare l’appagamento di Ottavio anche a migliaia di secoli di distanza.
Dobbiamo andare, sentenzia la Signora.
Lasciamo che se lo godano, propongo. Non le ho mai chiesto favori, non mi nega la prima interferenza personale del nostro immemore sodalizio.
Sei dispiaciuto?
Credo di sì.
Strizzo la palpebra, una ventata d’aria insalubre sembra avermi prosciugato la sclera. In cima ai tre gradini dell’androne, Ottavio si gode l’imminente conclusione di quella che parrebbe essere stata una serata straordinaria. Finora. Sorriso da venticinquenne impossibilitato alla crescita, volto sbarbato imbevuto di soddisfazione mentre infila la lingua nella gola di una bionda nell’androne, sotto gli occhi spremuti d’invidia e cristiana repulsione del portiere notturno. Si avvicinano alla porta a vetri dell’ingresso. Lui la accompagna fuori, la prende per mano per farla attraversare, benché la città non dia un solo misero segno di vita. Ma è nel silenzio, che accadono le catastrofi, no?
Dovrebbe vederli, Signora!
Posso immaginare, dice. Le parole scoccano gelide. Magari potesse immaginare ciò che cerco di testimoniarle con delle parole che cadono che precipitano come sassi nel pozzo delle sue orecchie.
Si muovono verso di noi. Ottavio è ancora disperso nel cobalto luminescente degli occhi della sua ragazza, e io come lui, tanto da non accorgermi di essere stato lasciato solo. La Signora picchietta il suo ossuto dito sulla spalla, lui si volta, incontrando il nulla; la ragazza lo precede di qualche metro, quel tanto che basta. Solo una brutta sensazione, pensa. Lo chardonnay, senz’altro. Lo pensano in molti.
Lo specchietto di una monovolume sghemba sfiora il fianco di lei, che quasi non si accorge di nulla. Ottavio sfonda il parabrezza prima di essere scaraventato via come un pallone di stracci. L’asfalto scortica via il suo giovanile splendore. Un sogno d’amore dilaniato dagli pneumatici produce gli stessi lamenti di una lattina accartocciata. L’auto si arresta dopo una lunga frenata, la fanciulla non ha ancora elaborato, esita a vomitare una disperazione che non può esistere senza la giusta dose di raziocinio. Adesso anche lei è sola. Adesso anche lei, che mai avrebbe pensato alla fatalità di un attraversamento pedonale, nel profondo, ha conosciuto la nostra presenza, il nostro pubblico dovere, clausole e vincoli del nostro contratto.
Raggiungo l’androne del palazzo. Il portiere notturno si è precipitato all’esterno in tutta calma. La Signora è davanti agli ascensori, con ciò che rimane dell’anima frantumata di Ottavio Malfattore. Adesso che l’ha preso può vederla anche lui, ma so bene che toccherà a me l’onere di spiegare. Si dimena per raggiungere la ragazza che annaspa sul suo vecchio involucro maciullato a ridosso del marciapiede.
Non è possibile, lo avverto più cautamente possibile. Non puoi, amico.
Non sono tuo amico!, abbaia.
Non posso biasimarlo.
Ora, proprio ora, vero!?, strilla. Non c’era modo di posticipare!? Chi decide quando è il momento?! Non poteva essere questo il momento giusto!
Puoi metterti a correre, se credi, ti lascerò andare, ma inseguiresti un miraggio, percorrerai questi dieci metri in eterno senza riuscire mai a raggiungerla. Sarebbe un supplizio inutile, uno scempio a cui ho assistito più di una volta, sentenzia la Signora.
Ottavio cerca di trattenere la rabbia che lo ancora al suolo, mentre il furore lo abbandona.
Arrabbiarti non ti servirà a tornare indietro, provo a spiegare. Non pensare a cosa ti sei perso. Pensa a ciò che è stato. Non servono cento anni di condotta esemplare, o una vita di pellegrinaggi sulle ginocchia, per definire degna un’esistenza. Ne basta uno, se ci si sforza di viverlo nel modo giusto.
Mi accorgo solo in ritardo di quanto ogni commento appaia paternalistico.
E quale sarebbe il modo giusto, ditemi?
Rammentarsi in ogni momento che al mio tavolo non esiste una seconda mano, risponde la Signora.
Lei non conosce il rimorso d’aver spezzato un sogno. Non si rammarica, non si avvede di nessuna umana condizione. Non mi è permesso sapere quali colpe abbia questo ragazzo, se ne abbia mai avute, né mi è permesso placare la sua angoscia in alcun modo. L’occhio si unge di una strana patina giallastra, lui mi sposta la mano mentre la allungo verso la sua spalla. Quante cose avrebbe voluto fare? Su di me grava l’ennesima responsabilità di aver condotto la morte alla sua nuova destinazione, ancora una volta senza trovare qualcuno che la sapesse fregare. Osservo la mia figura riflessa nel vetro della porta d’ingresso: ho tutto meno che l’aspetto di qualcuno che agisce secondo coscienza. Mero insieme organico di componenti biologici. Colpisco il mio riflesso nella porta mandandola in frantumi. Raccolgo un coccio di vetro. Doveva pur esserci qualcuno capace di imbrogliarla; non per fermarla, questo mai, ma per creare una crepa nell’ingranaggio. Mi squarcio da angolo ad angolo l’unica cosa che possiedo. Non posso rassegnarmi all’idea che un essere privo di volontà non abbia conosciuto alcun ostacolo, è ora che la Signora incontri un inciampo. Mi rammarico solo d’esser stato io, l’ultima cosa che ho visto. L’entrata di un palazzo non è la migliore delle cartoline da portarsi nelle tenebre. Eppure, non riesco a immaginare momento migliore.
di Giacomo Cavaliere
Giacomo Cavaliere è nato a Torino il 16 luglio 1995 ed è studente della facoltà di Storia presso l’Università Statale di Milano. In passato si è occupato di esposizioni collettive e personali d’arte contemporanea. Alcuni racconti sono apparsi su l’inquieto, Bomarscé, Malgrado le mosche e Sulla quarta corda. È editor di Light Magazine e membro della redazione di Frammenti-Rivista.
Illustrazione in copertina di Andrea Innocenti
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