Dagli ultimi banchi il ragazzo passa a sedere proprio davanti al pulpito dove il sacerdote a braccia spalancate sta recitando il Padre Nostro. Avrebbe voluto torturare il sacerdote davanti a tutti, in quel momento preciso. Strappargli la carne dalle ossa, cavargli gli occhi dalle orbite e scaraventarli sulla folla inorridita e incredula. E poi gridare loro, dove è Dio? Perché acconsente inerme e silenzioso al martirio di questo uomo? Chi di voi ha il coraggio di sentirsi ancora folgorato dalla luce della fede? E via altri brandelli insanguinati sulle loro teste, le mani sollevate a farsi scudo, gli occhi strabuzzati, rossi, inchiodati alla scena con i pensieri dentro il delirio di quel ragazzo.
Senonché il ragazzo ha deciso di aspettare.
Appena finita la celebrazione il sacerdote gli fa cenno di seguirlo in sagrestia. Il ragazzo raggiunta la sagrestia lo aiuta a spogliarsi dei paramenti liturgici. Il rituale come ogni volta viene assolto in silenzio, accompagnato soltanto dal brusio degli ultimi fedeli ancora presenti in chiesa.
Il sacerdote ama la riservata devozione del giovane con i capelli rossi e il viso pieno di lentiggini, che in pochi altri parrocchiani ha visto così intensamente vissuta. Il ragazzo, invece, dietro quella facciata da buon credente, nasconde l’indicibile.
La sua visione della vita, della religione, di Dio era venuta maturando lentamente a partire dalle prime volte che insieme alla mamma si era recato in chiesa per seguire le varie funzioni liturgiche, era proseguita assorbendo lungo la strada infinite parole recitate a memoria da catechisti di turno che sostenevano con fermezza che se per caso non riuscivi a ricordare alla perfezione ogni insegnamento avresti rischiato anche di non prendere la prima Comunione.
Parole, precetti, formule, indottrinamento, regole, tutto ciò iniziò presto a destabilizzare la mente e il cuore del giovane. Li considerava troppo distanti e riduttivi rispetto a quello che pensava fosse la fede. Aveva sempre pensato che la fede fosse qualcosa di destabilizzante, che succede qualcosa di sconvolgente dentro di sé quando ci si avvicina a Dio, mentre invece accadeva esattamente il contrario. Più frequentava la chiesa, più aveva provato un senso di raffreddamento, più imparava più si allontanava. E così iniziò a fermentare nel suo cuore il seme del dissidio, il veleno dell’odio. L’odio verso quei sorrisi compiaciuti che vedeva stampati sui volti dei fedeli. Come mai era possibile? Si domandava. Perché lui sentiva solo e soltanto vuoto e noia? Eppure, aveva sempre seguito alla lettera le prescrizioni della grande istituzione ecclesiastica, la santificazione delle feste, la devozione verso i Sacramenti, la riconciliazione e via dicendo fino all’ultima lettera della legge di Dio. Mentre gli altri godevano beati della meraviglia di Dio presente nei loro cuori, di irrompere nel cuore di Marino, questo Dio, proprio non ne voleva sapere. Si sentiva un escluso.
Quando spinse la mamma dal balcone, aveva venti anni. Aveva approfittato di un momento di tranquillità, uno di quei momenti che la madre si ritagliava per fumarsi una sigaretta sul balcone. Era appoggiata con i gomiti sul parapetto di mattoni, i quali erano già da un po’ di tempo distaccati. Era bastato accelerare qualche giorno prima il processo di deterioramento delle giunture e il gioco fu presto fatto. Un gioco, solo un gioco, per verificare la verità degli insegnamenti ricevuti durante i sabati sera al catechismo. Dio è vicino a tutti quelli che hanno scelto di seguirLo. E così una lieve spinta sulle spalle aveva innescato il meccanismo di ciò che successivamente sarà considerato solo un brutto incidente. I tre metri d’altezza dall’asfalto mitigarono il danno che avrebbe potuto rivelarsi estremo se la donna fosse caduta urtando la testa, ma se la cavò con un femore rotto, una clavicola fuori posto e qualche costola conficcata nei polmoni. Il giovane se la cavò diversamente. Il gioco della prova, nel tempo si trasformò in lui in una vera ossessione. L’inesorabile constatazione che il Dio dei fedeli era rimasto chiuso dentro il Suo cielo, fregandosene di prestare soccorso a quella povera donna che fino al mattino non aveva fatto altro che pregare in ginocchio davanti a una sacra icona, lo precipitò in un vortice di malattia inguaribile.
Se c’è un Dio, si chiedeva, questi, prima o poi avrebbe gridato dall’alto dei cieli pur di fermare l’abominio? O sarebbe restato dentro gli schemi del Suo inarrivabile gioco?
E adesso sarebbe toccato al sacerdote. Ma prima di lui quanti altri avevano subito la stessa sorte della madre?
Il sacerdote è di spalle, è imponente, pieno di un’autorità che gli deriva dal sentirsi depositario della unica verità, preclusa alla gran parte dell’uomo comune. Forse tutto l’uomo è ostacolato da un muro d’incomprensione che solo appunto spiriti elevati, eccelsi come lui, hanno la possibilità di oltrepassare, per poi farsi unici testimoni e quindi raccontare, guidare, indicare la strada a chiunque voglia ascoltare ed essere salvato.
È di fronte alle ante aperte dell’armadio che contiene i vari paramenti per ogni occasione. Dispone la stola su una gruccia e senza girarsi con una certa severità domanda al ragazzo la ragione della sua assenza alla liturgia del giorno precedente e gli ricorda inoltre del tempo trascorso dall’ultima confessione. Il ragazzo resta silenzioso a qualche passo dal sacerdote. Ha lo sguardo rivolto al pavimento. Tutt’altre sensazioni si fanno strada dentro di sé. E se lo facesse adesso? Pensa. Se si avventasse come un lupo sulla preda? Si gira verso il ripiano in marmo alle sue spalle. Disposti l’uno di fianco all’altro in un ordine preciso ed equidistante ci sono alcuni calici, patene, pissidi, ostensori e altro. Afferra un calice. Aveva avuto modo di verificarne la consistenza molte volte durante le pulizie della sagrestia, che gli toccava di fare insieme ad altri parrocchiani per poter guadagnare il diritto di utilizzare il campetto da calcio di fianco alla chiesa.
«Allora Marino, non rispondi?» dice il sacerdote continuando a restare di spalle al ragazzo. Marino stringe i pugni. In uno stringe il calice. Proprio in quel momento il sacerdote si volta e gli sguardi s’incontrano. Nella chiesa non è rimasto più nessuno. Il silenzio vola tra i muri riecheggiando tra gli spazi delle navate fin dentro la sagrestia, fin dentro le intenzioni del ragazzo, smorzandole improvvisamente. Il viso del sacerdote, la sua barba nera ben rifinita, la tonaca marrone sulle dita macchiate dentro i sandali, la mano tesa, penetrano nell’animo del ragazzo causandogli improvviso terrore e vertigine. Allenta la presa e il calice cade a terra e il rumore sordo rompe il silenzio rintronando fino ai confini del mondo, fin dove avrebbe voluto trovarsi in quel momento, da tutte le parti, tranne che lì. Perché quello lì gli appare come un fantasma, anzi, peggio, come un’aberrazione della comune natura di ciò che rappresenta la fisionomia riconoscibile dell’essere umano rispetto ad altri esseri. Un mostro, un diavolo con gli occhi di sangue e lacerazioni sulla carne degli zigomi, delle guance, del collo, le labbra riarse e altrettanto spaccate, grondanti macerie purulente dall’odore putrido e infestato. Di colpo una visione si sovrappone allo squallore trucido della realtà, il viso contratto e spaventato e terrorizzato della madre mentre cadeva a picco sulla strada e di tutte le altre vittime disseminate nel tempo a cui aveva fatto del male. Marino si porta i palmi delle mani alle tempie. Stringe, stringe, stringe e chiude gli occhi. Proprio in quel momento sente gridare una voce proveniente da un luogo recondito dell’anima, forse del cielo, forse dell’inferno. Quando riapre gli occhi il sacerdote con il volto da demonio è davanti al suo sguardo. Mulinando le braccia come un pazzo, Marino fugge via, urta lo stipite della porta, passa davanti al Cristo disteso dietro la grata, dietro l’altare, di fronte al coro, in silenzio come ad attendere, o come se non esistesse, o perché stanco di giocare alla verità che ciascuno pensa di possedere come una proprietà inalienabile e intoccabile. Poi si catapulta attraverso il corridoio, i passi rimbalzano come palle da biliardo tra le pareti, e finalmente esce nel chiostro, e finalmente esce, l’aria è un pugno allo stomaco, inciampa al gradino e cade faccia a terra.
Qual è la voce di Dio? Quale? Per Marino non ha oramai più voce, un incubo, come quello che adesso si sta depositando pesantemente sull’anima, un buio sterminato, vuoto, senza riferimenti, nemmeno le ali di quell’angelo che fino a qualche giorno prima sentiva spuntare dolorosamente sulle spalle mentre sognava e che interpretava come una spinta a proseguire lungo il cammino intrapreso, perché prima o poi l’avrebbe udito il grido di Dio. E poi con quelle ali volava, volava e volava fino a lambire l’eterea consistenza del cielo e quelle vibrazioni provate tra le costole e il cuore che lo sospingevano in alto ogni qualvolta sembrava cadere a picco verso la terra lo catapultavano nuovamente verso l’alto. Oscillazioni perenni, durature, di un basso e di un alto, di uno scendere e di nuovo risalire ad altezze vertiginose. Accompagnate ogni volta al risveglio dalla scelta inesorabile e inevitabile di una nuova vittima, di un nuovo dolore da infliggere, di una nuova crudeltà a cui dar sfogo, per l’unico grande e ossessivo desiderio. Udire il grido di Dio. Ora basta! E adesso soltanto il nulla intorno, dentro, sotto la terra che vacilla, che frana. Le ali spezzate, anzi mai cresciute.
Si può sperare di non ridestarsi? E cos’è la speranza quando svanisce del tutto nel baratro di una caduta? Si può desiderare di spegnersi per sempre nel nulla?
Nel nulla, nel silenzio, nel buio infatti è piombato per un tempo che sembra infinito. Non sa a cosa corrisponde il fulgore accecante né quanto tempo dopo la caduta è comparso al centro dalla sua oscurità. Inizia a percepire dolore, un dolore che alleggerisce stranamente i pensieri, che gli distende il viso di cui non avverte la consistenza, tutto gli sembra etereo, il corpo disteso su un letto immobile, paralizzato, ma è come se non gli appartenesse, l’odore di medicinali, il ritmo cadenzato proveniente da qualcosa lì di fianco, d’intorno delle voci che spaziano indistinte, via via più definite, che s’interrogano sulle sue condizioni, sul fatto che si stia svegliando, da cosa? da dove? Quanto tempo è trascorso? La luce è forte e accecante nei suoi occhi, li apre, ha l’impressione di averli aperti, anzi spalancati, ma intorno e davanti c’è solo questa luce accecante e morbida come la piacevole carezza che adesso gli sfiora forse il braccio, o forse direttamente l’anima, oltrepassando la pelle, la carne.
Come stai? È una voce flebile, appena udibile e stanca. La carezza al braccio diventa una leggera pressione e vorrebbe parlare, ma non ha voce, è debole, si sforza di emettere qualche suono ma è come quando in un sogno cerchi di gridare e non accade nulla e nessuno ti sente, perché non hai corde vocali né suoni né niente di niente e poi ti svegli. Qui adesso è sveglio e sente di esserlo del tutto. Riconosce la voce della mamma e quasi vorrebbe alzarsi per abbracciarla, stringerla a sé per non farla cadere. Qualcosa di grande e inspiegabile sta accadendo dentro la sua anima, quella luce folgorante proviene da una parte remota di sé, lo fa sentire in pace anche, continua a non vedere, poi sente vociferare di un problema agli occhi, che le bende le avrebbero tolte più in là, e capire se… Ora bisogna soltanto pazientare. L’importante è che si sia risvegliato, dicono. Risvegliato, anche se forse è cieco, non importa. Davvero non importa più.
di Danilo Di Prinzio
Illustrazione in copertina di Andrea Stendardi
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