Lo specialista della clinica dice che sia meglio amputare il sinistro, io alzo le mani, a me va bene tutto, basta che mia moglie inizi a fare le chemio e poi mi possono anche smembrare. Conosco gente alla quale hanno tirato via due, tre unghie, sei dita, mezza mano, due gambe, dipende. Il jingle dello spot della clinica è accattivante, e la voce parla chiaro:
«L’assistenza medica ha fregato anche te? Le privatizzazioni stanno lasciando morire uno dei tuoi cari? Sei disposto a tutto pur di vedere la tua famiglia tornare a sorridere? Corri da «Amputin! Amputin è il servizio che fa per te! Abbiamo chirurghi specializzati che sapranno individuare la parte del corpo da asportare, in cambio, a titolo completamente gratuito, forniamo un’assistenza medica per qualsiasi, ripeto, qualsiasi, tipo di patologia. Corri da Amputin, finché hai le gambe».
Non mi considero certo uno scellerato, il mio naturale istinto di conservazione mi dice che è meglio vivere senza un braccio che senza moglie.
La prima volta che sono entrato nella clinica mi ha visitato un giovane tutto lacca e sorrisi, ha controllato l’albo delle equivalenze e ha stabilito che quattro cicli di chemioterapia valgono un braccio. E così firmato un malloppo di scartoffie burocratiche ecco che mi ritrovo davanti lo specialista che tratteggia una linea a metà deltoide.
Cerco di non farmi troppe domande, di non andare incontro al troppo rimuginare, ma è inevitabile che il pensiero vada a quelli che hanno le conoscenze, quelli che per qualsiasi bisogno se la cavano dando un dito, se non addirittura un paio d’unghie. Senza considerare poi il fatto che sono figlio unico, così come lo erano i miei genitori: non ho né cugini né parenti, neanche a dire che per pagare futuri cicli potrò chiedere a loro. Riconosco che sto facendo il possibile, ma anche che sto rimandando l’inevitabile: la migliore delle scelte sarebbe farsi tagliare via gambe e braccia in un colpo solo ed essere certo di assicurare a mia moglie le migliori cure della nazione. Quello che mi blocca è che non so per quanto ancora dovrò prendermi cura della donna che ho sposato, sarebbe problematico prestarle assistenza se di punto in bianco mi ritrovassi a essere un torso tutto testa.
Lo specialista ha finito con lo scribacchiarmi sul braccio, dice di mettermi a sedere in sala d’attesa.
Sulle sedie gremite vedo sguardi disperati, emaciati, provati dal via vai che nei mesi precedenti lì ha visti entrare e uscire non so quante volte dalla clinica. Ci sono coppie di anziani, persone sole che si tengono ritte sulle protesi, giovani appena sposati a cui mancano i lobi delle orecchie e brutti ceffi con le impronte digitali bruciate. Ci sono braccia metalliche, braccia di legno, sedie a rotelle, stampelle, moncherini biancastri, gente che è tornata perché l’operazione è andata male e ora se la deve vedere con un’infezione.
Mia moglie non sa che sono qua, si sta lasciando morire sul divano di casa in preda alla disperazione che la consuma insieme al cancro. Le ho detto che dovevo prendermi un paio di giorni per me e ho pagato una badante che l’accudisse in mia assenza.
Nell’attesa ripenso a quando ero ragazzo e tra amici scherzavamo su eventi assurdi che ci sarebbero potuti capitare nella vita: ci domandavamo cose fuori dal mondo che al tempo ci sembravano impossibili e distanti. A un certo punto c’era sempre qualcuno che veniva fuori con la stessa domanda: “se ti dessero un miliardo ti faresti fare questo e quest’altro?”.
Vorrei vederle ore quelle bocche che cianciavano di coraggio e sfrontatezza, vorrei vederle con una moglie in fin di vita. Vorrei che apparissero ora, in questo stesso momento, qui, nella sala d’attesa della clinica Amputin. Se ciò fosse possibile li guarderei dritti negli occhi e direi loro: «Eccomi qua, disposto a tutto, fatemi quello che volete, ma il miliardo tenetevelo pure».
di Filippo Nencioni
Filippo Nencioni, anagramma di Oppio Infin Lince, nasce a Massa Marittima (Grosseto) nel 1992 e sopravvive in Val di Cornia, precisamente a Riotorto (Livorno), fino al diploma in lingue. Per un periodo si guadagna da vivere aggirandosi per l’Italia e per l’Europa con aria cogitabonda, esplorando birrerie e bassifondi urbani, facendo il cameriere ma anche il poeta e il cantautore. Nel 2015 pubblica l’unica raccolta di componimenti “Autoliberazione” (Parole Nuove) e smette di fare il poeta. Scrive racconti e canzoni dall’età di sedici anni, strimpella la chitarra e attualmente gravita tra Prato e la Maremma in cerca di una fissa dimora nella quale arroccarsi e scrivere il capolavoro che lo renderà immortale. D’estate fa il barista a Follonica, d’inverno scrive e suona in un gruppo rock ma il suo vero sogno è fare il bidello.
Illustrazione di Andrea Innocenti
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