menu Menu
Tutù
Parole di Susan Orlok ~ Illustrazione di Beatrice Nicolini
Posted in Incubi on 24 Settembre 2021 16 min read
Il problema non sussiste Previous La Clinica Next

Cartella clinica di Orazio X, agente del VI reparto mobile anti-sommossa.
Sessione registrata in data XX/XX/XX nell’ambito di un ciclo mandatorio per il reinserimento in servizio.
Dottoressa Maria Luisa Y, Bologna.

X: “È necessario il registratore?”

Y: “Signor X ci siamo già passati su questo argomento, le registrazioni non escono da qui e mi servono per seguire meglio il suo caso. Possiamo andare avanti?”

X: “Ma non serve a niente. Sono tre settimane che vengo. L’ho detto al comandante, che non ho bisogno di queste cazzate. Non sono una di quelle zecchette che hanno bisogno di aiuto con i loro sentimenti. Ho fatto il militare, io…”

Y: *rumoroso sospiro*

X: “Non sono pazzo.”

*Alcuni secondi di silenzio. Un piede batte sul pavimento*

Y: “Lei non è qui perché è pazzo, signor X. Anche perché io sono una terapeuta, non una psichiatra. È stato coinvolto, insieme ai suoi colleghi, in un’operazione che il vostro comando ha reputato traumatica e io debbo assicurarmi che l’esperienza non l’abbia lasciata inadatto al servizio.”

*Altra pausa di una decina di secondi*

X: “Con tutto il rispetto per quello che pensa il comando, le esperienze traumatiche sono il nostro lavoro. Ci chiamano per fermare folle di teppisti violenti.”

Y: “Dei suoi colleghi sono morti sotto i suoi occhi.”

X: “Rischi del mestiere.”

Y: “Ad una manifestazione studentesca.”

X: “Sono bestie. Non importa quanto li descrivano come santi dopo. Bestie.”

Y: “Mh. Signor X, le ripeto, finché non posso accertare che lei è stabile non mi è permesso rimandarla in servizio. Lo ha detto lei. Sono tre volte che viene e non ha fatto altro che stare sulla difensiva.”

X: “Beh? Sono stabile. Sto benissimo.”

Y: “E allora perché non mi racconta cosa è successo?”

*Il ritmo del piede si intensifica. Lunga pausa.*

X: “Perché se glielo dicessi non mi rimanderebbe in servizio.”

Y: “Cosa glielo fa pensare?”

X: “Quello che è successo…”

Y: “Ciò che succede qui dentro resta qui dentro. Io mi devo occupare solo del suo stato mentale. C’è una commissione d’indagine che si sta occupando di capire se quello che è successo durante la protesta fosse o meno legale.”

X: “Non è questo. Non ho fatto niente di male. Nessuno di noi lo ha fatto. Ci tocca mantenere la calma in mezzo a quegli animali che non vedono l’ora di colpirti alle spalle con un estintore. Manteniamo l’ordine. Se qualche zecchetta finisce con la testa spaccata è perché se l’è andata a cercare. Al comando lo sanno.”

Y: “Mh.”

X: “Rimane tutto qui dentro?”

Y: “Fino all’ultima virgola.”

X: “E mi crederà?”

Y: “La ascolterò.”

X: “Se le dessi… qualcosa per dire al comando che sto bene?”

Y: “Direi che ci vediamo venerdì.”

*Silenzio. Battere nervoso del piede.*

X: “Da dove comincio?”

Y: “Dove crede sia importante”

X: “Delle manifestazioni lo sa. Insomma, almeno sa che ci sono state delle manifestazioni. Al comando ci hanno pure detto perché erano uscite le zecche dalle fogne, ma eravamo più attenti al resto del briefing. Un dispiegamento di questo tipo non lo sentivamo da Genova. Ci hanno fatto murare un paesetto di provincia e per cosa? Cinquecento persone? Avevano fatto venire anche altri reparti della Celere. Poco ci mancava che chiamassero l’esercito.

I primi due giorni non è successo niente. Stavamo appostati dove ci era stato ordinato, con le armi in mano mentre la gente sfilava conciata per carnevale. Oltre qualche coro però non è successo niente. Ad alcuni del nucleo cominciavano a prudere le mani. Io alla fine ero tranquillo. Una cosa è prendersi a pugni in palestra, una cosa è stare in mezzo ai fumogeni coi sanpietrini che volano.

I problemi sono arrivati il terzo giorno. Era sabato, quindi non c’erano solo sfaccendati senza un lavoro in giro per strada. Girava voce che sarebbe scoppiato di sicuro qualche casino. Un collega aveva cominciato anche a pregare Nostra signora dei Servizi Segreti nella speranza che qualche infiltrato ci desse una scusa per iniziare a manganellare. Non che ce ne fosse bisogno. Quella degli infiltrati è una stronzata da cospirazionisti. Quelli vogliono menare le mani quanto noi, per tornare al loro centro sociale di merda e vantarsi di aver atterrato uno dei nostri.

Ovviamente non succede mai. Quando entri in polizia, in quella seria, tipo noi, ti abitui a ripensare un po’ qual è la violenza che ti aspetta sul campo. Gli agenti normali hanno a malapena una pistola che quasi non gli conviene usare, rischiano davvero la pelle. Noi siamo addestrati, equipaggiati. Può capitare che qualcuno resti ferito, ma è una certezza che gli altri ne usciranno peggio. È l’ordine naturale delle cose. Noi le diamo. Dall’altra parte della barricata le prendono. Almeno qui in Italia. Le zecche non sanno nulla di guerra, non l’hanno fatto il militare. Qualcuno sa fare a pugni, magari, o qualche cazzata cinese, ma nulla più. Per proteste più… scure ci sarebbe magari da preoccuparsi, ma sono ragazzi seri. Quando manifestano loro, la polizia arriva per evitare che i centri sociali rompano i coglioni.”

Y: “Tornando alla protesta?”

X: “Nostra Signora o no a un certo punto qualcuno dei pagliacci in parata ha tirato qualcosa. Tirano sempre roba, ci ha fatto caso? Come le scimmie.

La situazione si scalda, un pezzo del corteo va avanti e una buona metà della coda si disperde per fare casino, quindi ci arriva l’ordine dal comando di fare un po’ di disinfestazione. Spaccare due gambe, arrestare un po’ a caso, tanto in questo genere di situazioni…”

Y: “Le ricordo che l’unica eccezione al vincolo medico-paziente è l’ammissione di un reato.”

X: “Non c’era una commissione apposta?”

Y: “Funziona per i preti, funziona per noi.”

X: “Buono a sapersi. Comunque ci mandano in una strada dietro la piazza principale che scende verso una delle sedi dell’università. C’è l’imbocco di una serie di vicoletti da formicaio che ricollegano alla piazza ed erano sicuri che quelli che avevano iniziato a dare fastidio sarebbero usciti da là. E infatti…

Una quindicina di persone sono spuntate fuori e ci si sono trovati davanti. Alcuni avevano delle bandane in faccia, ma il grosso non si era nemmeno preoccupato di coprirsi il viso. Il problema di proteste in città così piccole è che non c’è mai una telecamera puntata sulla strada quando serve e salvo qualche ripresa al cellulare è impossibile raccattare tutti a posteriori. Nello snodo eravamo in sei.

Io e il collega XXX avevamo già cominciato a fermare quelli usciti dal vicolo, quando un’altra porzione di folla è risalita dalla via principale e ha cominciato a spingere. Questa è la parte delle operazioni dove si comincia ad agitare il manganello. Un paio di zecchette si erano già prese le prime bastonate, quando è successa questa cosa strana: in una protesta si riesce a sentire a malapena il rumore dei propri pensieri, tra la gente che urla e il comando che dirige con l’auricolare. Invece d’un tratto si è fatto tutto silenzioso.

Ci siamo girati verso i tre dei nostri che arginavano la via principale e dalla massa degli studenti è uscito questo tizio. Totalmente fuori contesto.

Glie l’ho detto, quelli che protestavano erano dei dilettanti, gente coi cartelli, volto scoperto, coi nasi che imploravano di essere spaccati. Questo invece, nonostante fosse maggio aveva un passamontagna pesante nero. No, nemmeno. Era tipo uno di quei cappelli di lana da pescatore, ma tirato fin sotto il mento. Non c’erano nemmeno i buchi per gli occhi, solo questo bulbo nero a coste che non guardava da nessuna parte. Poi i vestiti. Era come se si fosse lanciato in un armadio e fosse uscito con quello che gli era rimasto addosso. Mi pare avesse un maglione sformato sotto una camicia a fiori e… un tutù?”

Y: “Un tutù.”

[X stringe le spalle, NdR]

X: “Non era la cosa più strana uscita dal corteo quel giorno, ma colpì tutti. Persino i vandali. Avevano smesso di urlare anche loro. Questo tizio, sarà pesato ottanta chili in tutto, si avvicina a uno dei colleghi in antisommossa, poggia le mani sullo scudo e spinge. Un uomo di centododici chili di muscoli che cade sul culo come un bimbo dell’asilo.

Dal comando non arrivava più nulla, solo un brusio sordo. Un altro collega vicino a quello a terra allora alza il manganello e colpisce il tizio alla testa. Ha menato forte. Nulla meno di una frattura. Eppure non ne esce altro che quel rumore sordo di quando dai una pacca su un divano.

Tizio tutù a questo punto dovrebbe essere per terra, ma giuro su dio si volta, afferra il polso armato del mio collega a metà di un secondo colpo e con uno strattone viene via il braccio. Lo sfila dalla manica, come a una bambola e quello è il momento in cui ricominciano i suoni. Dalla folla iniziano a gridare, ma questa volta è panico.

Le prime file schiacciano su quelle dietro e dietro ancora e tutti si calpestano a vicenda nel tentativo di scappare da questo pazzo in tutù. Uno dei manifestanti nel vicolo vede il braccio del mio collega abbassarsi come una clava, spaccare lo scudo antisommossa in due e abbattersi sul casco del poveretto finché l’impatto non diventa questo suono di uova marce. Mi vomita sullo scudo.

Due manifestanti più grossi cercano di tirare via il pazzo col tutù ma si vede che è come scardinare un panettone di cemento.

In strada saremo rimasti in otto. La folla è lontana, il comando non risponde e un mio collega è a terra in un bagno di sangue. Uno dei manifestanti grossi si prende una gomitata in faccia dal tutù e vola indietro di cinque metri. Da lontano la faccia è un foro netto da cui non ha ancora fatto in tempo a colare del sangue. Quando atterra non si muove.

XXX si stacca dal presidio e corre verso una camionetta che abbiamo parcheggiato una decina di metri in fondo alla strada. Vuole chiamare rinforzi, o avvisare il comando, non lo avevo ascoltato davvero.

Tutù intanto aveva lasciato stare il braccio e si era lanciato su un altro dei miei colleghi. Gliel’ho detto, quando sei nella Celere la violenza, quella vera, non è una cosa che ti riguarda veramente. Hai gli scudi e l’armatura e il casco e il mitra. La mano del tizio questa volta attraversa lo scudo di plexiglas come fosse pellicola per alimenti. Non riusciamo a muoverci.

Abbandonare la postazione non se ne parla, non ci hanno addestrati così, ma non riusciamo nemmeno a fare niente. Sono troppo vicino per sparare e provo altre due manganellate sulla cervicale del pazzo e ottengo lo stesso suono sordo mentre quello afferra attraverso lo scudo il mio collega per lo sterno, affondando le dita nel kevlar e nella carne e lo gira come la chiave di un macchinario industriale. Il suono delle costole che si spezzano lo posso sentire ancora adesso.

Non rischiamo di colpire più nessuno adesso e noi ultimi due rimasti alziamo i mitra. Il tizio è a brevissima distanza e anche se ha lo scudo ancora incastrato sul braccio non gli sarebbe servito a nulla.

La prima raffica lo ha preso alla schiena. Da dietro il casco vediamo chiaramente almeno quindici buchi di proiettile aprire il tessuto, ma da sotto non scorre sangue.

Tutù si volta verso di noi. Al braccio ha ancora lo scudo, che alza più per un vezzo che altro. In mano stringe lo sterno avvolto in tessuto tattico e sangue. Avanza verso di noi, lento, calcolato. Dietro di me non ci sono più studenti. Potrei sparire nei vicoli, ma sento che tutù mi troverebbe anche lì, inesorabile come gli zombi dei film, che non devono correrti dietro perché sanno che tanto non si stancheranno mai e tu invece sì. L’ultimo collega rimasto, YYY è paralizzato. Prega. Non l’avevo mai sentito pregare.

Eravamo morti, dottoressa, capisce? Morti.

E invece no.

Nell’aria muta è esploso il rumore della camionetta che accelerava nella nostra direzione. Ho fatto appena in tempo a tirare verso di me YYY che il veicolo si è schiantato nella la vetrina panoramica di un negozio di vestiti, portandosi appresso tutù.

Nella vetrina uno dei manichini era rimasto un po’ piegato in avanti, in questa posa tipo qui potete osservare una camionetta della Celere incastrata in un muro, questo conclude il nostro giro, grazie per essere stati con noi.

YYY era sbattuto su un palazzo ma era vivo. Respirava. L’ho spostato più all’interno del vicolo, poco a fianco il retro della camionetta che sporgeva dalla vetrina. Le auto non scoppiano come nei film americani, quindi non c’era pericolo. Nell’abitacolo anche XXX stava bene. Pazzo furioso. Ho trascinato anche lui vicino a YYY e gli ho preso la mitraglietta.

Avrei dovuto chiamare il comando, ma non potevo. Tutù era ancora nel negozio e se fossero arrivati i nostri per portare via i feriti c’era il rischio che li aprisse tutti come bustine di zucchero.

A pensarci oggi mi sento ancora un coglione. Gli avevamo rovesciato addosso due caricatori. Uno con la forza di un orso, che non sente dolore, non sanguina e poi c’ero io che zoppicavo con due mitra spianati, tipo Rambo. Credevo che essere esagerato come lui mi mettesse in qualche modo allo stesso livello.

Dentro il negozio l’auricolare smise di botto di funzionare. Fino a quel momento c’era stato questo costante brusio da televisore rotto, ora nemmeno più quello.

Tutù era dentro.

L’impatto con la camionetta l’aveva lanciato su un appendiabiti per capi in saldo. Uno dei bracci gli spuntava dal plesso solare, immacolato, asciutto, come non avesse attraversato la carne. Era immobile, braccia aperte, quasi crocifisso.

Più mi avvicinavo e più questo ronzio mi riempiva le orecchie; i vestiti di Tutù sembravano essere diversi ogni volta che gli posavo gli occhi addosso. Una felpa, uno di quei maglioni lunghi da tossico, prima scarpe da ginnastica, poi crocs, poi anfibi. Il Tutù rimaneva fisso però, rosa confetto.

Che faccia poteva avere un animale del genere? Non aveva fatto un suono da quando aveva strappato le ossa a degli uomini innocenti. Fuori c’era anche uno dei suoi che aveva tentato di fermarlo, la faccia accartocciata su se stessa da un singolo colpo di gomito.

Gli ho tolto il passamontagna e…”

[Il soggetto inizia a piangere silenziosamente. Si stringe tra le braccia.]

Y: “Se non se la sente di raccontare oltre può fermarsi qui non c’è nessun problema.”

X: “No, no. No. Devo dirlo a qualcuno. Parlarne aiuta, no?”

Y: “Cosa c’era sotto il passamontagna, Signor X?”

X: “Niente.”

Y: “Questo è un posto sicuro, Signor X, nessuno la giudica.”

X: “No, non ha capito. Non c’era niente. Non una testa, niente.”

Y: “In che senso?”

X: “Nel senso che il passamontagna gli scendeva fino al collo, l’ho tolto e sotto non c’era un cazzo. All’attaccatura del collo c’era una base piatta grigia tipo manichino. Niente. Un cazzo di niente.”

Y: “Il rapporto che mi hanno consegnato dice che l’hanno trovata nel negozio accucciato di fronte a un manichino crocifisso a un appendiabiti.”

X: “Lo so cosa dice il rapporto.”

Y: “Le è sorto il dubbio che quello che ha visto potrebbe essere effetto del trauma?”

X: “Oh sì. Sono giorni che cerco di convincermi. Ma c’è un problema.”

[Il soggetto estrae dalla tasca posteriore dei pantaloni un passamontagna cieco]

X: “Questo è di Tutù. L’ho tenuto. Sopra ci sono ancora le macchie di sangue della zecchetta a cui ha spaccato la faccia. Lo prenda. Lo tocchi.”

Y: “No… grazie, non ce n’è bisogno…”

X: “Lo sente anche lei, no? C’è ancora qualcosa dentro. L’ho fatto vedere anche a YYY quando si è svegliato in ospedale e ha avuto un attacco di panico. YYY è un bisonte. Non ha mai provato panico nella sua vita.

Questo è tutto. Crede sia pazzo?”

*Mezzo minuto di silenzio*

Y: “Non sono qui per giudicare quello che mi racconta.”

X: “Allora? Sono adatto al servizio?”

*Ancora silenzio*

[Il soggetto evita il mio sguardo]

X: “Non voglio tornare in servizio.”

Y: “Aveva insistito tanto all’inizio della seduta.”

X: “Ma ora ho parlato. Ho raccontato quello che è successo a qualcuno ed è vero. Tutù non era uno studente. Non una zecchetta, nemmeno una di quelle che si spaccano talmente di droga che scoprono i mistici dell’oriente. Non c’è nemmeno bisogno che mi riportino in quel paesino di merda. Potrei trovarlo ovunque.”

Y: “Ha detto che era morto.”

X: “Già.”

*Silenzio*

X: “Sa, ogni tanto mi chiedo cosa succederebbe se me lo mettessi. Il passamontagna.”

Y: “Cosa pensa accadrebbe?”

X: “Beh, non vedrei un cazzo.” *ride*

[Il soggetto non si è presentato alla seduta seguente, né sul posto di lavoro. Le pratiche per la sparizione sono state già inoltrate dalla famiglia. NdR]

di Susan Orlok

Illustrazione in copertina di Beatrice Nicolini


Altra roba che potrebbe interessarti:

ACAB Beatrice Nicolini Incubo Racconto Rivista Waste Susan Orlok Tutù


Previous Next

keyboard_arrow_up