Ghermisco la sagoma del tuo corpo attraverso banchi di fuliggine damascata. Un sole moribondo riesce comunque a ostacolare il mio sguardo. Steli di luce filtrano in questa stanza e ti coprono i seni, così che riconoscere il tuo volto è un’epifania velata. La tua visita non mi smuove, nonostante la sua stranezza. Rimango, forse impietrito, agonizzante tra le pieghe del letto. Aspetto che la tua sagoma si condensi definitivamente, così da poterti salutare meglio. Desidero che in qualche modo la tua ombra si rimpolpi di carne, che i filamenti muscolari s’allunghino e s’abbarbichino sulle candide montagne delle tue ossa consumate. Aspetto il momento in cui i tuoi seni sferici si aggrapperanno appena sulla gabbia fulva del tuo sterno e le costole ospiteranno corpi carbonatici di madreperla. In quel momento saprò con esattezza chi sei, perché fatta di carne, di labbra vive che vedrò muoversi pronunciando il mio nome o un tenero saluto. Ma il processo continua a non concretizzarsi. E non ne faccio un dramma. Succede puntualmente ad ogni crepuscolo. Arrivi qui, come un ectoplasma scurito, ti vedo attraversare la stanza, curiosare nei miei cassetti, vegliare mentre dormo. Poi spaccato dal dolore, provo ad avvicinarmi, ma ti sbricioli in cenere e il vento soffia forte portando con sé le ombre della notte. Oggi, sento che è diverso, così pronuncio la verità: tu sei morta. Ti ha spenta la fibrosi.
Ora il tuo viso, ombra di pece, mi concede una rivelazione funesta. Ti guardo, con le iridi concentriche, formate da frattali di galassie attorno alla tua pupilla di sangue. I banchi di caligine filtrano densi dalla finestra, naiadi assatanate sgattaiolano attraverso gli infissi, staccano i battiscopa a morsi. Se non le fermo divoreranno le coperte, risaliranno i jeans fino a scavare con le dita nei miei ventricoli. Sono le tue risposte adirate, queste ninfe minute? Lo grido aprendo la bocca, ma sembra che dal tunnel di carne e cartilagine che si apre all’interno del mio corpo non esca nessun latrato. Continui a penetrarmi con gli occhi. Oggi sono tracotante, mi permetto perfino di avanzare verso la tua sagoma slavata dalla nebbia arancione. Forse oggi voglio diradarti. Devi andare via da questa stanza. E così succede. Avanzo, ti perdo. Faccio un passo, ma scompaio anche io.
La tua voce funge da faro acustico nell’oscurità della notte improvvisa. Oltre le finestre il sole si è scurito, i lampioni stanno tardando ad accendersi, solo un fievole languore tra le nuvole accende i giardini di una luminescenza chiara. In questo vortice di pece, la tua lingua mi guida imprecando, segna i passi da fare pronunciando bestemmie antiche, accusando divinità adamitiche. Quindi cado e mi rimproveri, anche se sembra che la tua voce stia dichiarando un anatema: sei una bestia, il mostro dei boschi.
Sì, sono una bestia.
Ululo la mia colpevolezza come tributo a Pasùpati. Le pareti della mia stanza s’allargano, si sciolgono forse, non posso capirlo. Per dimostrartelo, ancora una volta, infilo le unghie nel petto cercando di arrivare oltre la gabbia che protegge i miei polmoni spaccati dal fumo. Saremo pari, ti dico. Ma desisto dall’intento lesionista, perché ad ogni latrato lanciato ai padri divini corrisponde una fuoriuscita di muschio attraverso i miei pori. Sto mutando e tu sei spettatrice, con le gambe candide incrociate. Guaisco debolmente adesso, sventrato da me stesso. Felci larghe e umide di brina si allungano al posto dei peli. Sono la belva: allo stesso tempo la foresta che la ospita. Mi incarno in tronchi esangui di betulle, il mio sangue si rapprende in linfa dorata. Trasfigurerò in robuste conifere quando sarà inverno. Sono la belva e la foresta, questo mi colma di potere.
In questo tafferuglio ho intenzione di puntare i piedi: corri tra i platani, adesso, infilzata dal sotto bosco, mangi i frutti che produco dalla pelle della pancia, divori le bacche delle mie labbra, aspetti il temporale sotto un faggio ingiallito dalla bile, ne risali il tronco coriaceo per cercare le mie iridi e trafiggerle. Sguinzaglio le fiere assetate per cercarti. Lampi di tuono illuminano la mia pelle bruna, sulla quale corri cercando di non inciampare in liane spesse e cocci di silicio, senti ringhiare alle tue spalle, odi grida disumane raggiungerti. I mostri sono vicini, ti strapperanno via vestiti e pelle, sarai concime un giorno: parte di me. Ma le tue gambe bianche sono forti, la tua mente è scaltra, i tuoi polmoni sono divorati dalla fibrosi, non respiri ma fortunatamente la foresta finisce e l’ultimo albero ti restituisce alla vita, alla pace del fiume.
Ti spogli. La tua pelle è svelata. Diafana come un ectoplasma sotto una luna protolitica, nuda come una gorgone, mi guardi torva: l’odio delle fate mi giunge assieme alla risacca, lambisce piano le mie caviglie. Docile carezza ghiacciata. La foresta defluisce dal mio corpo stanco con la stessa facilità con cui era arrivata. Rivoli di piscio verde sgorgano dai miei pori per morire con indecenza tra i fiotti del fiume.
Avanzi nell’acqua nera, il tuo corpo riluce di una luce azzurrina. Chino come un cavaliere sconfitto aspetto che la tua spada mi tagli la carotide di netto. Spero in cuor mio che sia veloce. I tuoi polmoni però iniziano a sfavillare oltre la pelle del tuo seno, attraverso le bacche turgide dei tuoi capezzoli. Non capisco se sia la luna a bagnarti di luce, o se sia tu in possesso di una mortuaria bioluminescenza.
Te lo chiedo. Rispondi che ti ho abbandonata.
Ti avvicini al mio viso, posso notare i segni della lontananza: le borse livide, le labbra arse e spaccate come terre brune. Mi baci, sai di naftalina.
Di colpo mi spingi verso l’acqua e il fiume mi ingloba con le fauci gelide. Su di me, come una candida cancrena, si calcifica uno strato di ghiaccio. Ma è traslucido, la tua immagine nuda non è opaca, anzi posso distinguere con esattezza la tua vulva morbida, il cancello per Asgard. Non ho modo di pensare che andrà diversamente. Guardo i tuoi movimenti rallentati attraverso la lastra di ghiaccio. Tossisci e i polmoni si illuminano di lampi bordeaux. Il seno palpita a scatti lenti. Ti accasci sulle ginocchia, il tuo corpo è una lingua di carne smorta a pochi passi da me.
Sbatto i pugni sul vetro raggelato, ma non senti. Ti chiamo, non ascolti. Dovrei annegare, non lo faccio.
Sono condannato a guardare le ragnatele di cheratina di quei tuoi capelli fulgidi, attorcigliarsi attorno al tuo vomito. Si sporcano di petrolio verdognolo, mentre rigurgiti pietre di fiume e pezzi rubicondi di polmone ti strappano la gola. Esanime cedi sul fiume ghiacciato. La tua faccia senza vita è il mio personale psicopompo per la discesa verso gli abissi. Lontano dal corpo cereo, i satelliti vomitati rotolano piano e ti permettono di compiere lievemente la tua tiepida fantasmagoria. Ti dissolvi gradualmente in luce, mi digerisce cautamente il buio. La fibrosi che covavi nei piccoli alveoli ha vinto, noi abbiamo perso come stolti duellanti.
Rinsavisco improvvisamente da un sonno caldo e umido.
La stanza è rischiarata dalle luci acide dei lampioni. Ho paura che l’incubo possa essere vero, ma mi vengono in aiuto i ricordi freschi dell’ultima cena al mare. Tu che infilzi il filetto di orata, per poi cadere sulla gonna. Imprechi, con il tovagliolo lo tamponi. Dal mare arrivano zaffate di iodio e dalla strada schiamazzi d’auto.
Mi giro in questo letto, adesso più fresco, sulla spalla opposta e porto le ginocchia al petto colmo della felicità procurata dalle smentite. Dormo e questa volta non sogno più. Anzi, una volta sveglio ho come la sensazione di essere riposato. Le immagini della sera prima sono diluite nella patina del risveglio. Bevo un caffè caldo e un bicchiere di latte, rado la barba e mi infilo in doccia. Rimango ingobbito sotto il getto per lunghi minuti, adesso mi sembra che i muscoli invece siano indolenziti da chissà quale sforzo animale e lontano di cui non ho memoria. Lavo bene le ascelle e i piedi, quindi mi avvolgo nell’asciugamano. Trenta secondi di phon e la mia pelata è asciutta. Così decido di mettere la camicia blu con le felci, quella che piace a te. Scordo di mettere il deodorante, bevo ancora un altro caffè, quindi ti chiamo per avvisarti che sto per arrivare, che dovrai prepararti che sarebbe bello tu mettessi il vestito a fiori che mi piace alzarti nei posti nascosti, dirò al telefono che non vedo l’ora di scoparti, ma lo dirò a bassa voce, con un tono quasi udibile, tu dall’altra parte arrossirai, mi dirai che sono impazzito, tossirai tra una parola e l’altra, ti consiglierò di mettere una giacca, ti ricorderò di portare con te le pastiglie prima di uscire, tu mi ignorerai e mi chiederai ancora dieci minuti, acconsentirò.
Ma il problema non sussiste. Il tuo cellulare suona a vuoto e mi ricorda che sei morta davvero.
Di Antonio Potenza
Antonio Potenza è nato nel 1993. I suoi racconti sono apparsi su Nazione Indiana, Marvin, Micorrize, Pastrengo, Spaghetti, IFDB, La Nuova Carne, Morel, Blam, Suite Italiana, Waste, Spore, Lahar, Il Rifugio dell’Ircocervo e altri. È stato editor di SundaysStorytelling. Ha co-fondato Salmace.
Illustrazione di Beatrice Nicolini
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