Un grosso scarafaggio maschio, con una lunga coda, trascina su per la duna di sabbia un piccolo scarafaggio femmina. La voce fuori campo dice che la lunga coda del maschio serve per covare le uova, appena verranno deposte, per farle schiudere velocemente al sole. Devono nascere in fretta, vivere di corsa e riprodursi rapidamente. Nessuno ha voglia di fare una carezza o un paio di coccole a una roba schifosa tutta zampe e lunga coda biforcuta. Guardando meglio sembrano di due specie diverse, si saranno accordati per un’avventura senza impegno. Da qua sopra vedo i due cosi rivoltanti che avanzano tra la vegetazione rada della spiaggia, vedo il maschio sbucare sulla cima con tutte le zampe in movimento, e sullo sfondo, in basso, vedo il mare agitato e i bagnanti tra i pochi ombrelloni.
Io non avrò mai cinque stelle di cinque, né like, né premi, né encomi, al limite un calcio in culo ma non di quelli che spingono in qualche direzione costruttiva.
Stracci svolazzanti, lamiere taglienti, pelle seghettata, fegato spillato.
Sento ancora la voce fuori campo, illustra l’accoppiamento di due serie di Fibonacci, azzurre e bianche, una di fronte all’altra, due chiocciole della sezione aurea. La voce dice che appena il vermone nero si addormenterà, loro si accoppieranno. E il bacarozzo si appallottola su se stesso e cade addormentato, non credo sia quello di prima che trascinava la femmina su per la duna. Dalla sfera nera sporgono dei monconi, neri anch’essi, sembra una cremagliera.
Mi viene la pelle d’oca quando vedo degli insetti.
Le due serie di Fibonacci procedono con il loro amplesso: da quella alla mia destra viene espulso un bulbo oculare con l’iride celeste e viene inglobato dalla serie alla mia sinistra. Le aperture larghe, agli apici, si congiungono, iniziano a ruotare insieme e si trasformano in un’ellissi. La voce fuori campo non dice altro.
Scendo nella hall. Oltre il vetro di protezione della reception c’è un tizio che parla in messicano, lo capisco osservando il labiale, io non parlo messicano, ma ho capito lo stesso. Dice di non rompere e me ne vado.
Peccato, mi piaceva tutto quel legno con pomelli dorati per appenderci le chiavi delle stanze, odore di cedro e via vai di persone fra strada e scale, ascensore, gente che parla inglese.
Tornando nella mia stanza vedo, attraverso la porta spalancata della camera di fronte, due messicani che si riposano dopo le fatiche di un accoppiamento. Lui le cinge le spalle, lei ha gli occhi chiusi, le coperte sono in ordine, il tappeto in linea perfetta col bordo, per la discesa di lei.
Rientro e chiudo. Mia madre dice qualcosa ma non capisco cosa, parla inglese invece che italiano e la ignoro. Mi appoggio al davanzale, talmente largo che non riesco a sporgermi per guardare di sotto, verso la spiaggia e verso la duna.
Mia sorella poggia la radio sulla ringhiera di un balcone, potrebbe cadere di sotto, non riconosco la canzone ma sta per finire tutto.
Quella frazione di secondo in cui la minuscola fenditura da cui ero sgusciata via mi risucchia, è sempre straziante, non voglio che finisca, non voglio tornare.
Mi sveglio, il sogno non è ancora svanito, controllo ogni cosa intorno, non è un albergo, è casa mia, non è nemmeno casa mia, volendo, ma sono questioni insulse da trattare, affitto mutuo proprietà convivenza, che cambia. Scatola di pietra, tomba per vivi, succhia reddito, mi diverto a cercare sinonimi e definizioni, Aldo non mi sopporta.
Scendo dal letto, il tappeto è spostato da un lato, mi pareva fosse al suo posto quando sono andata a dormire.
Rivoglio la duna, la hall, i messicani, invece ho solo Milano, la muffa e il naviglio ridotto un acquitrino.
Torno a letto, cerco di riprendere a sognare, ma nemmeno riesco a dormire.
Voleva che io fossi di acciaio, io amo le donne di acciaio che scopano senza ruggine, diceva. Io invece con la continua produzione di liquidi salini gli ho fatto venire l’attrito ai testicoli. Spero gli siano caduti. Che vacca, anche questo non va bene, ma a lui non dite di essere carino, giudicate me, e lui allora?
Il mio nome, sì certo, anche lui lo voleva conoscere, e dopo, quando glielo ebbi detto, tutto cominciò a tracimare. Vino bollito, brodo sfatto, hamburger di vetro rotto, il bello della coppia, perché sola no, poi ti danno della sfigata.
Forse il tappeto si è spostato mentre entravo a letto e non me ne sono accorta. Non ho voglia di controllare l’ora, tanto oggi sono di riposo. Mi sto riposando da quattro anni.
Mi sembrava di essere precipitata in un episodio di Twin Peaks, mi spaventavo ma non perdevo una puntata, mi impressionavo così tanto che ancora adesso, trent’anni dopo, mi vengono i brividi se ci ripenso. Fuoco cammina con me, diceva così, e chi ha ucciso Laura Palmer? Tutte le puntate ad aspettare la soluzione del mistero e nemmeno me la ricordo. Perché poi me l’ero dimenticato il nocciolo della questione, non mi importava più di Laura, chi se ne frega, tanto è morta, volevo vedere cosa avrebbero fatto, detto, pensato, mi interessavano i vivi. Quello mi importava.
Adesso invece è tutto il contrario, mi interessano i morti.
Eccolo il mondo, è tornato.
Sento i rumori in strada, il rubinetto in bagno che perde, il dente che mi fa male, a volte solo se ci penso, a volte quando ci batte del cibo.
La realtà.
Pinze alle caviglie o vergine di Norimberga. Mi restano incollate ai neuroni scene e fatti raccapriccianti che poi vorrei allontanare e invece rimangono e ruotano e si moltiplicano.
Anna, mi chiamo così, come Anna di Avonlea, non ho i capelli rossi però, non sono orfana, non sono proprio.
Sto in un foglio, passeggio se posso, o scappo nel letto. Anche il divano va bene, ma non è molto largo e ci devo stare di lato, quando mi sveglio ho le gambe che formicolano.
Mi piace scappare, lasciare tutto fuori campo, entrare in un altro mondo, posso dormire anche venti ore di fila se voglio. Il resto del mondo dovrebbe collaborare però. Mi domando quanti quadri si possano appendere alle pareti degli alloggi di questo condominio prima che io possa con matematica certezza sapere che non ci saranno altri colpi contro chiodi che sosterranno tele con immagini insulse.
Aldo, sì. Dovremmo tornare a lui. Al perché se ne sia andato. O al perché non me ne sia andata io.
Non serve mai a niente analizzare. Un buon temporale, fuochi fulmini e saette, aria pulita, elettrica, e dopo cielo terso. Ecco, io a quel dopo non arrivo ancora.
Sei depressa.
Vaste depressioni carsiche, diceva così il mio insegnante. Di cosa e in quale scuola non lo ricordo. Però ricordo le immagini, possono restarmi impresse per sempre anche se le vedo per una minuscola frazione di secondo. Non tutte, solo quelle che superano lo sbarramento del no, quelle che aggirano la sorveglianza e mi fregano.
Che termini che usi.
Voci fuori campo, installazioni sonore permanenti, cubi di alluminio, tende di broccato, limonata calda e penicillina.
Oltre la soglia del dolore c’è il domani, scarpe di ghisa, non ci pensare, domani andrà meglio, coraggio.
Sotto la soglia del coraggio la capra schiatta sopra la soglia della paura la pecora dorme.
Non belo e non produco lana, ho letto così tanto ma potevo fare di più, perché le strade devono sempre portare da qualche parte, la mia, porta solo qui.
Le lenzuola sono da cambiare, non ne ho voglia, puzzano di fantasia, odorano di falso, mi ci sono rigirata così tanto in questa flanella che è piena di pallini all’altezza dei piedi. Ho tagliato male l’unghia di un alluce e gratta contro la stoffa. Le tagliavo benissimo fino a quattro anni fa, prima della vasta depressione carsica.
Ma fattela una cazzo di risata ogni tanto.
Sono stati, non sono più, ma parlano ancora, non stanno mai zitti, che io glielo dica o meno. Era più facile quando erano veri, ora da finti sono virulenti e mi invadono senza rispetto.
La doccia, il bagnoschiuma alla rosa, lo shampoo alla camomilla, il balsamo. Devo usarlo sempre, ho i capelli crespi, si impigliano e non riuscirei a pettinarli senza strapparli. Ne ho persi tanti, non so se per la carsica o per il troppo mangiare. Non mangio troppo, è che assimilo, mi nutro di tutto, non mi fermo, non è che eccedo è che non so dove dire basta. Basta è quando tu sei dove non devi essere ma io non so quando diventare palla nera e tirare fuori i monconi neri per respingere, mi appallottolo ma rotolo e ridono. Di me, che dico Anna per dire me ma che Anna non sono.
Coltivavo gerani prima, un prima così lontano che non so in quale pagina di calendario sia sepolto. Era un’altra città un altro anno un’altra me.
È tempo di una risata.
Oggi c’erano le primarie di quel partito politico, non so cosa siano le primarie, non so bene cosa siano un sacco di cose, ma so che c’erano. Quelle che se adesso uno cadesse per le scale dovrei ridere e invece correrei a vedere se si è fatto male. Salvo che non sia Aldo, lui si può fracassare sul marmo. Non perché mi ha lasciato, perché mi ha preso.
«Vieni a vedere tesoro».
Resto immobile, magari non mi vede. I passi si avvicinano, smetto di respirare. Solleva il piumone, avvicina il viso.
Non ho mentito, Aldo se ne è andato, anche se adesso mi sta incollato a un centimetro, non c’è.
«Vieni di là, guarda cosa ti ho portato».
Mi lascio trascinare in cucina.
Sul tavolo qualcosa delle dimensioni di un qualcosa, avvolto in carta bianca. Sento odore di fritto. Voglio solo tornare sotto le coperte, Aldo insiste, fa le feste, saltella, fa lo scemo, sono stufa. Lo scarto, è un dinosauro di patatine fritte, a bastoncino, ne vado matta, ma sono fredde. Poi che razza di idea portarmi un dinosauro fatto di patatine. Rabbrividisco, la sottoveste è troppo leggera, me ne torno in camera.
Sento la porta di ingresso sbattere.
Con la mia piccola candela me ne vado in giro a raccogliere rose rosse dal gambo lungo. Quando ne ho tra le braccia un grande fascio, salgo su, spingo la botola e entro. Lo libero dal sacco e il grosso porcospino salta fuori. È un ghiottone, sa pasteggiare come si deve. Dosa petali, spine, gambo e foglie, senza abbuffarsi. Lo lascio al suo pasto, riprendo la candela, richiudo la botola e me ne torno nel catrame. È faticoso fare su e giù, non devo parlarne con nessuno, se dicessi a qualcuno del porcospino, delle rose, della candela dalla cera inesauribile, so che cosa farebbero di me. Voglio solo starmene sotto le coperte, dormire per sempre, non c’è niente oltre questo letto che mi interessi. La vita, che è solo un grumo di quattro lettere, ma potevano essere dieci o due o nessuna. Nessuna lettera sarebbe stata la verità, lo zero nel niente, e sarebbe stata vita davvero.
Sto partendo, su morbidi palloni di gomma spicco il volo in mezzo a latrine e mucchi di spazzatura, mi libro su un pantano di marce perlustrazioni e supero tre miglia di acredine. Non so nemmeno quanto misuri un miglio, ma mi sento spesso inglese quando volo. Negli alberghi amo i messicani, nelle taverne gli spagnoli, in libreria i francesi, amo girare fra porte e finestre, sfidando la vista, provando le orecchie. Nessuno mi sente, nessuno mi vede. Sono sempre qui, ma il qui è un quadrato perfetto che smussa i suoi angoli, vira e in picchiata diventa celeste, una sfera in cui plano e torno, ritorno, ma solo per aspettare il prossimo volo.
La voce fuori campo dice che la lunga scia serve a segnalare il passaggio, a tracciare una linea di confine fra vero e falso. Sento che spiega il mio viaggio, distinguo le parole «Anna» e «morta».
Io non sono morta, sono solo fuori campo.
di Grazia Palmisano
Sono nata in un trullo a Martina Franca l’ultimo giorno di gennaio di un bellissimo anno. Ho abitato anche a Torino e adesso a Corsico. Da piccola volevo diventare grande, per fortuna ho cambiato idea. Gioco ai castelli di panna, dormo immagino e sogno. Mi dedico alla deframmentazione della mia psiche, fra una lettura e l’altra: saggi narrativa e poesia. Abito in un blog, busso alle porte e qualche Rivista ogni tanto mi fa entrare.
Illustrazione di Andrea Innocenti
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