Cercava la Pace, ma rispose al telefono.
Udì dentro al ricevitore quel suono che suo padre di solito emetteva allorquando materiale esoticamente necrotico gli si muoveva dall’intestino, e, tangibilissimo, realistico all’inverosimile, percepì l’odore di morte che a quel suono seguiva all’istante, onda d’urto senz’eccezioni, in via diretta da quelle viscere marcite che il corpo del padre custodiva per uno strano scherzo del fato, pur restando ancora mostruosamente vivo.
Il tanfo però – ovvio – non gli giunse così come quando lo percepiva Realmente, quando si trovava Davvero a poca distanza dalla bocca del padre, potendosene dare una sola rappresentazione relativa, contingente, ma gli si personificò a distanza invece, ideale e perfetto, assoluto. Non lo seppe reggere per più di qualche secondo e, telefono in pugno, scattò verso il bagno turando con la mano libera la bocca, fino alla tazza, sì, la tazza del cesso, dove finalmente poté dare libera uscita alla cena, che colpevole solo d’essere stata pessima, risultava tuttora ingiustamente detenuta.
Continuo, frattanto, sentiva il gracchiare vicino della voce del genitore amplificato dal cavo della mano, e ripreso fiato quanto bastava, gridò:
Aspetta! Cosa? cosa devo aspettare? Papà, aspetta, sto vomitando! Stai vomitando? e cosa?
Ecco cosa: trovata la via di fuga aperta, anche il pranzo, scaltramente, l’infilò, e tornò come giusto, anch’esso, a rivedere la luce.
Una volta terminata la procedura di rievocazione del cibo, esibito un distratto interessamento agli avvenimenti recenti della vita del figlio, Padre si lamentò a sufficienza del proprio infausto caso clinico, insistentemente manifesto col peggiore dei sintomi (la vita), e si congedò.
Figlio tornò al bagno, dove si lavò la bocca e prese in considerazione l’ipotesi di lavarsi anche i denti, intento che poi non attuò perché testualmente “troppo stanco ed incapace di volere altro”.
Stette per un certo tempo accucciato davanti al lavandino.
Tenendosi aggrappato al bordo.
La testa fra le braccia.
Sentì freddo.
S’alzò.
E barcollante fece ritorno al tavolo da dove era giunto poco prima. Lasciò cadere la testa sulle braccia e non pensò.
Chiusi gli occhi, vide scorrergli davanti cavalieri medievali armati che fendevano reggendo fiammeggianti torce, una nebbia rossa. Fumo, forse. Fuoco, forse.
Sentì freddo.
Forse sangue.
Fastidio. Ancora.
Ma certo. È evidente, questa casa è fredda, è gelida.
Forse fuoco che sanguina.
I sogni non riscaldano le case vuote.
Il sangue che brucia, forse.
Pensò a qualcosa da scrivere.
Luoghi in cui la constatazione del nulla è tutto.
Perché costui ambisce ad esser scrittore, di professione. Di quelli che scrivon cose di fantasia. Che raccontano frottole.
Bisognoso di tranquillità pensò a Quello, che s’aggirava lamentandosi del fatto che mai nessuno avesse scritto un’epopea della pace.
Sentì che il padre stava morendo.
Ma di quale pace si può scrivere? Solo l’atto dello scrivere è già un’azione di guerra. Un conflitto che si allarga al lettore, poi, laddove ce ne sia uno.
Che il padre stava morendo, sentì. Lo stomaco. Sensazione che non gli giunse nuova. Da anni, il padre stava morendo. Da sempre.
Oh, ci si abitua a tutto.
Ma stavolta l’aveva sentito, al telefono.
Questo è tanto igienico.
Oh, non amò mai davvero suo figlio, né il suo stomaco. Amò il suo mal di stomaco, questo è tutto.
Chiudere gli occhi.
Aggiungere buio al freddo.
Riaprirli per trovarsi al cospetto di un medico che per scuotere Figlio da quel suo granitico, preoccupante, impietrito torpore, declama parole chiave: “D’altronde, già è un miracolo che suo padre abbia potuto vivere così tanto dopo l’insorgere della malattia.”
“Già”, l’uomo di granito pensò… “Proprio così. Un Grande miracolo.”
Il corpo freddo del padre, davanti. Un corpo che improvvisamente, così, da un momento all’altro, non chiedeva più nulla, non si lamentava più di niente. Non stava a dettagliare ogni minimo malanno, non chiedeva d’aiutarlo a cercare le ciabatte o il telecomando. Non desiderava più. Non temeva la morte! Così improvviso fu quel mutamento che a lui, a Figlio, parve tutta una truffa, e continuò a pensarlo altrove, caldo, querulo, insopportabilmente logorroico e piangereccio.
Poi al funerale si sentì meglio. Molto meglio. Sollevato. Quasi felice. Vide cavalieri medievali gozzovigliare e festeggiare brindando alla morte di un dio attorno ad un fuoco color del sangue. Sentì stringere le mutande. O no. Forse le sentì stringersi per ben due volte.
Rinvigorito, sentitosi abbastanza forte da poter mostrar pietà Povero vecchio, però, pensò: con un pizzico di coraggio in più avresti affrontato e vinto tutto questo e m’avresti guardato negli occhi, un giorno, morendo. Perché poi in fondo eri solo un codardo. Eh, sì, avevi un coniglio nel cervello. Un coniglio nel cervello e una carota nel cuore. E con gli anni il coniglio scendeva giù e sempre più giù e si mangiava sempre più di quella carota eccoecco.
Ma è tutto sempre così facile a dirsi.
Eh oh no.
No.
Non è neppure facile a dirsi, niente.
O tu avessi avuto un padre come sei stato tu non avresti certo potuto avere un figlio da
Camminare. Alzarsi al mattino. Non cadere. Tutto questo non è pace. Non c’è pace nel respiro, nel battito sereno del cuore. Epica della pace. Solo pensarlo è già una cosa che fa ridere.
Nemmeno ridere è pace.
Nella morte, forse? No, neppure nell’esser morto, quindi nel non essere: quindi, nessuna pace.
Casa sua tornò a essere vuoto meno lui.
Figlio aveva, dentro, maldigerita, sbocconcellata, una vita.
Gocce di sangue. Una dopo l’altra, un giorno dopo l’altro.
Vivere per traboccare: il tempo di scrivere: quello in cui tutto quanto risale dalle viscere, vuole esser vomitato.
Riveder la luce.
Rinascere.
Ed ecco il silenzio che subdolo e invisibile penetra dalle finestre socchiuse, spazza via le parole dalla sua testa, un rapido stormir di pensieri e poi, via, più niente, giusto un lampo in cui capire che sta accadendo,
di Nivangio Siovara
Il mio nome è Giovanni Ravasio, ma firmo i miei lavori con lo pseudonimo Nivangio Siovara. Ho pubblicato due romanzi (“L’Onestà del Moloch” nel 2017 e “In Albis” nel 2018) e una raccolta di racconti (“Di Vento”, nel 2019), tutti presso Prospero Editore. Ho partecipato all’antologia “Oltre il confine, storie di migrazione” (2019), con il racconto “Incubo”, e all’antologia “Anch’io” con il racconto “Mi guardano dentro e non trovano” (2021).
Illustrazione di Andrea Innocenti
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