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Sparire
Parole di Tarek Komin ~ Illustrazione di Luca Pettarelli
Posted in Incubi on 8 Marzo 2023 13 min read
Supernova  Previous Leccare le ferite Next

Prese il barattolo dello zucchero dalla mensola sopra il ripiano dove Marta cucinava. La lama di luce proveniente dalla finestra che creava sulle piastrelle la forma di una casina stilizzata fu ostruita dal movimento. Un cucchiaino abbondante scivolò nel caffè. Mentre lo girava si voltò verso l’orologio sulla parete vicino al frigo. Marta era scomparsa da quasi dieci minuti, non era il record ma poco ci mancava. Si sedette al tavolo, cercando di concentrarsi sul profumo del caffè. E poi, dopo qualche secondo, lei riapparve davanti alla porta ed entrò in cucina con la vestaglia da notte che sapeva di talco e un sorriso rilassato sulle labbra.
«Dove sei stata, questa volta?».
Avanzò verso di lui: «Sai, che non devi bere caffè».
Grugnì: «Sei stata via tanto».
«È stato bellissimo, passeggiavo sulla sabbia calda, c’era una brezza lieve e un mare incantevole. Dai colori delle case oltre la spiaggia sembrava la Grecia, tutto bianco e blu. È passato molto?».
«Dieci minuti».
Si sedette: «Non mi fanno male nemmeno le gambe. C’è ancora del caffè?».
Lui si alzò e dalla piattaia estrasse una tazzina che mise sul tavolo. Quindi prese la moka dal fornello spento e le versò il caffè rimasto. «Non è molto» disse, rimettendosi a sedere. «Hai smesso di contarli?».
«I viaggi, dici? Da un po’», gli sorrise «Lo so che mi invidi. Ma non sono sempre così belli, o così lunghi».
«Lo so».
«E soprattutto non posso decidere quando sparire e quando tornare».
Lui ricambiò il sorriso: «Questo poi lo so da quasi quarant’anni», poi si interruppe. «Non senti freddo in vestaglia?».
Lei, che aveva la tazzina alle labbra, scosse il capo.
Lui mise la destra sulla mano che Marta aveva poggiata sul legno. «Ogni tanto ripenso alla prima volta che ti ho vista sparire. Non ci credevo».
«Ti avevo preparato».
«Certo, mi avevi preparato. Ma non ti conoscevo. Dicevi hai presente i viaggi astrali? Beh io ogni tanto scompaio, mi ritrovo in dei posti strani, ma con tutto il corpo» rise, «Ti avevo scambiata per un hippie mezza matta».
«Era difficile da credere. I miei non ci hanno mai creduto, non lo hanno mai visto accadere».
«Ovvio non ti prendessero sul serio».
«Ma si sono intensificati con te, dopo il matrimonio soprattutto».
«Bei tempi, a parte quando sei scomparsa la prima notte di nozze».
Marta rise, con la bocca e con gli occhi, quindi si alzò: «Hai avuto tempo per rifarti».
Andò in soggiorno e lui la seguì. Aveva preso l’atlante dalla libreria e lo stava sfogliando. Lui la osservava dalla soglia. Tutti quei libri, un’infinità di volumi sulle esperienze extracorporee, sulla bilocazione e l’ipnosi, la medicina e la psichiatria. Nessuna risposta. Anni di studi e nessun perché. Le si avvicinò e le cinse le spalle velate di seta. «Come vorrei conoscere una spiegazione, come vorrei farlo anch’io, Marta» le bisbigliò all’orecchio.
«Lo so, amore. Vorrei poter fare qualcosa, ma non so perché accade».
«Se solo qualcun altro potesse aiutarci, se qualcuno provasse le tue stesse esperienze, adesso c’è anche internet. Magari troviamo uno specialista…».
Lei ripose l’atlante, gli strinse le mani con dolcezza e si liberò dal suo abbraccio: «Sai che non possiamo. Mi porterebbero via da te, mi studierebbero in qualche laboratorio».
«Vorrei solo capire, vorrei provare». Il tono era sconsolato, sapeva che lei aveva ragione.
Marta si scostò: «Non è facile nemmeno per me, vivere reclusa qua dentro, lontana da tutti. Non lavorare, uscire a malapena scortata da te e non poter nemmeno andare al supermercato come fanno le donne della mia età».
La fissò negli occhi e non riuscì a trattenersi: «Che ormai sono nonne, che sono state mamme».
Marta ricambiò lo sguardo dura: «Sei perfido, sai che lo volevo anch’io. Ma non potevamo. Se fossi scomparsa durante una visita o addirittura durante il parto?».
«Scusami» abbassò lo sguardo.
Lei non rispose e con un fruscio familiare la sua vestaglia svolazzò leggera lungo il corridoio.


**


Si voltò di nuovo verso la sveglia. Le due e cinquantasei. Il Serenott non faceva effetto. Ripiegò il cuscino sotto il collo e il dolore cervicale si attenuò. Marta respirava forte. Dormiva distesa alla sua sinistra ma lui tese lo stesso la mano, come d’abitudine. Le sfiorò il fianco. Era lì e da nessun’altra parte. In nessuna spiaggia greca, in nessun bosco o a librarsi sopra alcuna carrozza, di chissà che paese e chissà che epoca. Aveva ragione, con lui, nella loro quotidianità e col rischio di smaterializzarsi e sparire da un momento all’altro, non era al sicuro, non era libera. Ma quella libertà la riscuoteva con gli interessi ogni volta che scompariva dalla loro casa e si ritrovava per il mondo. Se solo fosse riuscito a comprendere i meccanismi di quel fenomeno incredibile. Quando ci pensava in modo così intenso riaffiorava alla mente una domanda che era sopravvissuta per quasi quattro decenni: sono pazzo? È tutto un sogno? Perché una cosa simile non poteva essere reale, né avere un senso. E pensò, come ormai consuetudine, che se solo avesse potuto confessarsi con qualcuno, dire sai, mia moglie ogni tanto scompare, si teletrasporta all’improvviso contro la sua volontà, in Cina o in Bolivia e poi torna in pochi istanti come se niente fosse, se solo avesse potuto sfogarsi, sarebbe stato tutto più vero. Si sarebbe liberato di un peso. Oppure, forse, il suo interlocutore gli avrebbe risposto: come vorrei che anche mia moglie finisse di colpo in Cina. E penserebbe a uno scherzo. O a una malattia mentale, un’allucinazione. No, senza assistere ad una sparizione nessuno gli avrebbe creduto. Avrebbe dovuto sopportare quel peso da solo, come al solito.
La sfiorò ancora, era sempre lì. Chiuse gli occhi, anche nel dormiveglia quei pensieri non lo abbandonavano. Viaggi e sparizioni. In quella scarsa lucidità notturna paragonò quel fenomeno a un sogno. Voleva abbandonarsi anche lui, dormire. Ma le immagini confuse o una qualsiasi visione onirica non arrivavano. Riaprì gli occhi. Le tre e ventisette. Tese la mano. Marta non c’era più. Accese l’abat-jour e aspettò. Tornò, sopra il piumone, alle tre e trentuno. Lo salutò con un sorriso e bisbigliò: «Domani ti racconto tutto».  Lui annuì e spense la luce.
Dopo una decina di minuti infilava le pantofole per andare in bagno. A metà del corridoio avvertì un crampo allo stomaco, come se una mano gli avesse afferrato gli organi dall’interno e stringesse con artigli affilati. Si piegò sulle ginocchia. La sensazione durò poco. Per la prima volta scomparve anche lui.


**


Il dolore allo stomaco era sparito, non la pressione alla vescica. Riaprì gli occhi, le mani ancora sulle ginocchia e le sue pantofole sdrucite sopra un pavimento scuro, sembrava cemento. Si sollevò. Era in una stanza buia e fredda, fece scorrere le dita sul cotone del pigiama all’altezza della spalla. Si rese conto di sorridere, a dispetto della temperatura rigida e del suo bisogno di orinare. Il suo primo viaggio, un momento che aveva sempre desiderato. Forse Marta lo aveva in qualche modo contagiato. Gli occhi si stavano abituando alla penombra. La stanza era spoglia, senza finestre. La luce arrivava da una minuscola lampadina che pendeva nuda dal soffitto. Ma era debole, il bulbo polveroso. Un tavolo stava addossato all’unica parete che aveva una porta. Sembrava d’acciaio. Si voltò, sul lato e fece due passi verso la parete opposta. Lungo il muro c’era una vecchia credenza, mancavano un cassetto e uno sportello. Un altro era divelto e stava appeso alla cerniera di sbieco, in una posizione innaturale, legato come da un filo di bava invisibile eppure potente. Si chinò, la cartilagine del ginocchio destro schioccò in modo familiare. Un’eco modesta rimbalzò tra le pareti, fu sufficiente per farlo interrogare sul silenzio che lo circondava. Orribile come destinazione per il mio primo viaggio pensò, c’è anche un odore di merda. Afferrò l’unico oggetto che stava in fondo alla credenza. Un barattolo di latta sudicio e appiccicoso. Era aperto, dentro c’era una poltiglia scura. L’etichetta sulla superficie era consumata. Riuscì solo a decifrare qualche lettera. Incomprensibile. Sembrava cirillico. Lasciò cadere il barattolo sul cemento, notò una sedia rovesciata nell’angolo tra la credenza e il muro. Aveva tre gambe. Tornò in piedi e andò alla porta. Doveva uscire da quella stanza cupa e maleodorante. Ma non c’era la maniglia. Spinse con i palmi sulla superficie fredda d’acciaio. La porta non si mosse. Di colpo un grido al di là della parete lo fece sussultare. E poi lo stomaco si contrasse. Chiuse gli occhi per il dolore e quando li riaprì era in ginocchio a terra, sul marmo del corridoio. Un tepore umido tra le cosce. «Cazzo, mi sono pisciato addosso».
«Sta’ tranquillo». Marta si era alzata dal letto ed era venuta ad aiutarlo.
Lui si mise in piedi da solo: «Un viaggio di merda. Un posto cupo».
«Può capitare» gli rispose con un sorriso, «ma hai viaggiato anche tu».
La guardò fiero: «Puoi dirlo. Spero sia solo l’inizio».
«Adesso cambiati e torna a letto».


**


Spalancò le palpebre. Lontana dal soffitto pendeva la lampadina fioca e un odore ripugnante invadeva le narici. «Cazzo, sono sempre qui». Era sdraiato sul cemento duro e si mise a sedere. Un peso nella tasca deformata del pigiama. La tastò, martello e cacciavite erano ancora lì. Sorrise, Marta lo aveva schernito per l’idea di addormentarsi insieme a quegli attrezzi. Sparisco sempre di notte e vado sempre lì, in quella stanza buia. Se viaggiano con me, saranno utili.
Si alzò in piedi, la testa era leggera, le gambe intorpidite dal sonno. Il peso nella tasca gli fece calare un po’ i pantaloni. Se li tirò fin sopra l’ombelico dandosi dello stupido per non aver pensato di entrare sotto le coperte indossando un giacchetto che in quel freddo avrebbe fatto comodo. La porta era di fronte a lui. Prese il cacciavite e cercò di infilarlo nella piccola fessura tra l’acciaio e la parete. L’idea era quella di far leva e provare a martellare il cacciavite per allargare l’incavo. La punta penetrò al terzo tentativo ma al secondo colpo di martello scivolò fuori e terminò nella carne dell’indice. Lui urlò mentre il cacciavite cadde a terra. La ferita era superficiale, il sangue disegnava sulla pelle un rigo sottile che somigliava a un ghigno. Gocce scure piovevano sul cemento. Si voltò verso la credenza e scagliò il martello contro il vecchio mobile. Il barattolo con l’etichetta in cirillico uscì rotolando dal suo nascondiglio. Odiava che gli oggetti, ad ogni suo viaggio, tornassero al proprio posto. Significava che lui arrivava sempre in quell’esatto punto del tempo.
Di colpo, oltre la parete iniziarono le solite grida. Avrebbe voluto rispondere, ma una fitta allo stomaco lo trafisse e quando riaprì gli occhi si ritrovò disteso sopra il piumone, nella propria camera.
Marta si mise a sedere sul letto e con tono preoccupato chiese: «Stessa stanza?».
«Sì, per l’undicesima volta sempre lì».
«I tuoi attrezzi?».
Si tastò il pigiama: «Sono rimasti là».
«Hai aperto la porta?».
Scosse il capo.
Lei chiosò: «Magari ti saranno utili la prossima volta. Facciamo colazione?».
Trattava quei viaggi con normalità e superficialità: «Non voglio più tornarci laggiù. È terribile».
«Forse significa qualcosa. Vuoi un tè?».
Marta si alzò e andò in cucina. La seguì: «Undici volte, lo capisci? Tu hai mai fatto più di un viaggio nello stesso posto?».
«Non lo so, sparisco da quando era bambina. Ma undici me lo ricorderei», quindi versò l’acqua dalla bottiglia nel bollitore. Lo guardò e aggiunse: «So che stai per dire: usa quella del rubinetto».
Le si avvicinò: «No, sto per dire che non è questo che volevo quando mi raccontavi i tuoi viaggi. Non volevo quella stanza di merda».
«Lo so».
«E poi a te non vengono neanche i crampi allo stomaco».
Lei accese il fornello e si voltò verso di lui: «Cerca di calmarti, forse è l’ultima volta».
«E devo stare attento anche ad uscire, potrei sparire in mezzo alla gente».
«Con te evidentemente è diverso. Io non ho dolore e tu scompari sempre di notte».
«E tu non finisci mai in quella stanza chiusa e puzzolente», scostò la sedia dal tavolo e si mise a sedere.
Fu mentre mangiavano i biscotti al miele che Marta sparì.


**


«Marta?» chiamò nel buio, scostandosi le lenzuola dal mento. Nessuna risposta. Tese la mano alla sua sinistra, sua moglie non era a letto. Si allungò verso l’abat-jour e accese la luce. Le sette e cinquantasei. Sospirò e poi le campane della chiesa iniziarono a rintoccare. Deglutì. Significava che era domenica perché gli altri giorni non suonavano mai a quell’ora. Significava che erano passati tre giorni da quando Marta era scomparsa mentre facevano colazione. I viaggi non erano mai durati così tanto. E se il fenomeno si fosse in qualche modo guastato? Se non fosse tornata mai più?
Si alzò, infilò le pantofole e andò in bagno. Orinò e mentre si lavava le mani cercò di evitare di posare lo sguardo sull’uomo triste e trasandato che stava nello specchio. Chiuse il rubinetto e fece passare la destra ancora bagnata sulla guancia. La pelle ruvida. Anche la barba aveva tre giorni, era in attesa come lui. «Speriamo che almeno sia su qualche spiaggia assolata», mormorò. Si tolse la casacca del pigiama e la gettò nel secchio dei panni sporchi. Voltò le spalle a se stesso e aprì l’acqua della doccia per farla scaldare. Si piegò per levarsi i pantaloni ma un crampo allo stomaco improvviso lo fece mugolare. Socchiuse gli occhi e fece in tempo a dire: «No…».
Era di nuovo in quella stanza maledetta. E a torso nudo. L’odore era insopportabile e già da oltre le pareti soffocanti arrivavano grida di disperazione. Per la prima volta considerò che potesse esserci qualcun altro nella sua stessa situazione. O forse si ritrovava nella cella di un carcere, a scontare una pena non sua. Si passò le mani sulle braccia, per cercare di scaldarsi. Era freddo ma forse tremava più per il terrore. E se, come Marta, non fosse più tornato?

di Tarek Komin

Tarek Komin, nato a Sansepolcro da madre italiana e padre siriano, vive e lavora tra Toscana e Umbria. Laureato in Studi Storici, ama i viaggi e l’arte, ed è autore di romanzi, poesie e racconti. Il suo ultimo romanzo, “Il giorno in cui ritornano”, è da poco uscito per Gallucci.

Illustrazione di Luca Pettarelli


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