La mattina in cui vidi per l’ultima e prima volta l’uomo con l’abito grigio, quell’attimo in cui incrociai il suo sguardo alla stazione, io seduto su una vecchia panchina imbrattata e lurida e lui in piedi, immobile, curvo su di me, ecco proprio in quell’istante fui attraversato da diverse emozioni, tre per la precisione, in rapida sequenza e d’intensità crescente, come se tuffandomi da uno scoglio a strapiombo sul mare l’adrenalina del volo si scontrasse con lo shock per l’acqua scura e gelida che mi avvolgeva, e iniziassi a tremare non per il freddo ma alla vista delle pinne triangolari e affilate di tanti, vicinissimi, squali (squali!). L’uomo, l’ho detto, era in piedi. Ho detto anche di non averlo mai visto prima, ma in realtà l’avevo già incontrato altre volte. Tre per la precisione. In sogno. Sogni che definirei ricorrenti, in cui mutavano l’ambientazione e i dettagli ma non la trama di fondo, e cambiavano gli attori ma non, s’intende, noi due. L’uomo, l’ho detto, era in piedi e mi guardava. In sogno era il mio fedele servitore, e insieme solcavamo i mari e attraversavamo i deserti ed esploravamo le giungle, io inseguendo i miei nemici e affrontandoli a duello, lui che poco distante m’incoraggiava e addirittura, mica sempre, mi applaudiva. L’uomo, questo non l’ho detto, era in piedi e mi guardava e sorrideva. Non l’ho detto perché quel sorriso m’inquietava. Anzi, diciamo pure che mi faceva paura, molta, perché nel sogno l’uomo sfoggiava quel sorriso alla fine di ogni duello, appena dopo l’ultimo colpo, appena prima d’inginocchiarsi e avanzare grufolando come un maiale verso il cadavere del mio avversario (porco!), per leccarne il sangue che grondava dalle ferite, succhiarlo, bere il sangue insomma, mentre l’elegante abito grigio, l’abito che indossava in sogno come alla stazione, proprio quell’abito s’insozzava tutto quanto di rosso.
L’uomo era alto. Ben più alto di me che certo non ero basso, e aveva le spalle curve e le sopracciglia fini e un naso lungo lungo (anche la lingua, anche la lingua) e gli occhi chiari, di un azzurro così chiaro da sembrare grigio, da far pendant con il colore dell’abito. Occhi grigi e azzurri, come il mare. D’inverno.
Nel primo sogno eravamo pirati. Anche se da pirata ero vestito solo io, l’uomo indossava il suo bel completo grigio. Ma aveva un uncino. Uno stupendo e luccicante uncino. Insieme inseguivamo una nave mercantile tra le onde in tempesta e l’assaltavamo. Io sfidavo a duello il capitano. Aveva la faccia del mio capo, il capitano. E anche il corpo e i vestiti e tutto il resto. Le nostre spade s’incrociavano, sdeng sdeng sdeng, lui non era granché, gli trafiggevo il cuore. Facile facile. La punta della mia sciabola lo penetrava come il celebre grissino nel celebre tonno. Il sangue sgorgava. Fiumi e fiumi di sangue. L’uomo in grigio non applaudiva. Ovvio, poteva tagliarsi con l’uncino. Non applaudiva ma si abbassava, si metteva a carponi, e gattonava sorridente fino al cadavere del capitano, del mio capo, e glu glu glu, beveva tutto quel sangue mentre gorgogliava fuori dal cuore. Quando mi svegliai avevo la nausea. Arrivai in ufficio in ritardo e il mio capo, che ritrovai vivo e vegeto come sempre nonostante in sogno l’avessi ammazzato, stronzo come sempre, mi diede una bella lavata di capo. Una brutta bella lavata di capo. Io ero appena arrivato e stavo appendendo la giacca nel guardaroba. In mano tenevo la gruccia. Somigliava a un uncino, la gruccia. Le tempie mi pulsavano, sentivo la faccia pesante, le guance gonfie, la testa mi faceva male, vedevo male, vedevo rosso. Il capo sbraitava. Avevo appeso in silenzio la giacca e mi ero fermato in ufficio un’ora più del solito. Come al solito.
L’uomo era alto e curvo, curvo su di me, e il suo alito puzzava di ferro. O di ruggine. Da quando mi ero accorto di lui non si era mai mosso, neppure un passo, neppure un piccolo passettino, eppure il suo viso sorridente sembrava avvicinarsi. L’uomo aveva la faccia curva e ben rasata, e il collo lungo lungo (anche la lingua, anche la lingua). Somigliava a una gru, a una gru arrugginita che calava su di me oscurando il sole. Che però mi scaldava lo stesso. Che caldo, quel giorno.
Nel secondo sogno eravamo beduini. Anche se io solo ero bardato di nero. Lui indossava il suo completo. Ma aveva una benda. Sull’occhio, nera, una benda nera sull’occhio destro. Cavalcavamo dei cammelli, o dei dromedari, non mi ricordo mai qual è l’uno e qual è l’altro, e raggiungevamo un’oasi. C’era un soldato francese, nell’oasi. Io l’odiavo quel soldato. Il soldato aveva la faccia del mio migliore amico. Lo sfidavo a duello. Lui non voleva combattere, io sì, lui neanche si difendeva, io lo uccidevo. Sai che bel duello. L’uomo applaudiva felice. E poi giù a succhiar sangue, nonostante fossimo in un’oasi, nonostante lì vicino ci fosse una fresca fonte d’acqua fresca. Vallo a capire. Guarda come beve. Come s’insozza. Mi svegliai assetato, con la gola secca e le guance secche. La sera andai a giocare a tennis col mio migliore amico. Non era vestito da soldato francese ma da tennista. Tennista italiano. Non lo sapeva che avevo letto i messaggi, non sapeva niente. Non gli dissi niente. Lo centrai in piena faccia con uno smash (boom!), lo centrai nell’occhio, proprio nell’occhio, nell’occhio destro. L’occhio gli si gonfiò tutto, sentii la lingua gonfia, la testa pesante, avevo sete, gli portai del ghiaccio.
L’uomo era alto e curvo e vicino. Troppo vicino. Gli occhi grigi erano iniettati di rosso e il suo alito puzzava di sabbia, o polvere, e mi stava così vicino da essere imbarazzante e pure un po’ inquietante (anche la lingua, anche la lingua), così vicino che mi alzai e mi allontanai, corsi via, verso una porta, la porta dei bagni, il bagno degli uomini. I lavandini del bagno perdevano tutti, proprio tutti, e non solo i lavandini, e c’erano pozze d’acqua e pozze gialle, ed era umido.
Nell’ultimo sogno eravamo esploratori. Anche se scarponcini e casco coloniale li portavo solo io, l’uomo che cosa indossava lo sapete già. Ma aveva un pappagallo. Un pappagallo grande e rosso che sapeva tutto. O perlomeno era quello che diceva, che ripeteva. Il pappagallo diceva So tutto, So tutto, So tutto. Attraversavamo la foresta e tranciavamo le liane con i machete ed evitavamo le sabbie mobili, e scacciavamo le scimmie. Cacciavamo. Una tribù di cannibali. I cannibali erano piccoli e mezzi nudi, combattevano con cerbottane e lance, sbagliavano sempre mira. Il capo dei cannibali era la mia fidanzata. La sfidavo a duello. Lei combatteva furiosa, combatteva usando le mani e i piedi e le unghie e i denti. Io combattevo annoiato. Usavo il machete. Bel macello, il machete. C’era sangue dappertutto, pezzi di cannibali dappertutto, pezzi della mia fidanzata. Così sorridente l’uomo grigio non l’avevo visto mai. Non la finiva più di applaudire, di leccare, di bere (slurp!). Il pappagallo ripeteva So tutto, So tutto. Mi ero svegliato affamato, tanta tanta voglia di carne. La mia fidanzata che dormiva sull’altro lato del letto. Il cellulare della mia fidanzata che dormiva sul comodino. Le avevo posato una mano sulla coscia, me l’aveva spostata, si era rimessa a dormire. Non mi ero rimesso a dormire. Avevo pensato al cellulare. Ai messaggi. Non lo sapeva nessuno. Che sapessi tutto, intendo. Parole che non erano per me. Parole che erano pezzi di frasi. Di vita. Pezzi di vita in pezzi. Mi ero alzato dal letto e avevo spalmato la marmellata di fragole sul pane con un coltello affilato ed ero venuto in stazione senza salutare la mia fidanzata.
L’uomo era fuori dal bagno. Io dentro il bagno che pisciavo. Pisciavo e quell’uomo era fuori e mi aspettava. Davo le spalle alla porta e avevo chiuso a chiave la porta e sentivo che l’uomo era fuori e mi guardava. Mi guardava da sopra la porta. Era alto quell’uomo, grande e grosso (anche la lingua, anche la lingua). Finii di pisciare e mi guardai le mani. Perché pisciavo col coltello in mano? Non stavo pisciando. Dovevo girarmi e mi girai. Il coltello era tagliente e affilato e ancora sporco di marmellata. Di fragole. L’uomo aveva gli occhi grigi, l’abito grigio. Mi guardava da sopra la porta. Era alto ed era curvo, aveva il collo curvo. La faccia lunga e curva scendeva verso di me. Come un amo. Sorrideva. So tutto, diceva quel sorriso. Mi tirai su le maniche. Mica per pisciare. Il coltello sorrideva. Era lungo e tagliente, grigio, era sporco di rosso. L’uomo sorrideva. La lingua ondeggiava. Sorrisi anch’io. Dipinsi tante righe sulla pelle, tante ferite come tanti sorrisi. Tanto rosso. Guardai l’uomo. Era vicino. Era nel bagno. Occhi curvi, grigi, vicini, grandi, tanto grigio, tanto grigio chiazzato di rosso. Un po’ di dolore.
E poi buio.
di Francesco Ceffa
Francesco Ceffa è nato nel 1983 e vive in Piemonte, in provincia di Novara, tra le risaie. Fin da piccolo amava cominciare a scrivere storie, perlopiù fan fiction dei Ducktales e dei Bobobobs. Molti anni dopo, complice la pandemia che lo costringe in casa più tempo del solito, decide che tutte queste storie, oltre che iniziarle, era il caso di provare anche a finirle. Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati su riviste letterarie come Malgrado le mosche, Risme, inutile, Narrandom e Bomarscé. Nessuno, purtroppo, ha come protagonisti paperi o gnomi spaziali. È stato finalista nell’edizione 2022 del trofeo RiLL.
Illustrazione di Costanza Degli Abbati
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