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Un unico bagliore
Parole di Beatrice Galluzzi ~ Illustrazione di Beatrice Nicolini
Posted in Narrazioni on 20 Maggio 2020 20 min read
Domani non si conta Previous Caravelle Portoghesi Next

Lungo il pendio per raggiungere la chiesa, le chiome acconciate degli invitati sobbalzano assieme ai loro passi. Sono impalcature articolate, fissate da gel vischiosi, tenute insieme da moltitudini di mollette, diamantini, piccoli fiori e fermate – in un ultimo tocco di stile, la mano del maestro coiffeur mentre si guarda allo specchio, compiaciuto per la sua opera – con lacche glitter, e fissatori per capelli dal profumo chimico, ma smorzato da una robusta nota dolciastra.
I lunghi strascichi dei vestiti, tutti in sfumature del marrone cangiante più o meno chiaro – tanto da uniformarsi alla carnagione abbronzata da lampade o da lunghe sedute di sole sul balcone – sfiorano i sampietrini, sfarfallando leggermente per l’insolito vento di luglio. Così, mani inquiete, con unghie laccate e ispessite dalla ricostruzione, tirano su gli orli, scoprendo gambe appena depilate e lucide di crema, e piedi – di solito calzati in Nike di ultima generazione, e già gonfi in sandali dai cordini troppo stretti – che sembrano voler sfuggire dal loro contenimento e scivolano gradualmente sul davanti, tanto che le dita cominciano a sbordare dalle punte. Tacchi inceppati tra le piccoli rientranze tra un mattoncino e un altro; imprecazioni sottovoce; zeppe traballanti in procinto di slogare articolazione labili; caviglie a contrastare l’andamento scosceso e i bordi di buche farinose.
Gli uomini aspettano smaniosi sulle scale d’entrata, cercando di tenere le mani ferme – per contegno, che almeno davanti al Signore Iddio, un minimo di compostezza – e si forzano di incrociare le braccia per non gesticolare troppo, a meno che non debbano portare una sigaretta alla bocca. Solo in quel caso – convinti che nessuno in fondo li giudicherà se aspirano con eccessiva foga per poi espellere liberatorie nubi di fumo da bocche sformate in “o” appiattite sui lati – si muovono con più naturalezza, la loro. Ma sono i sussulti delle spalle a svelare il tic della predominanza. Leggeri, continui, quasi impercettibili, che entrano fluidamente a far parte dell’insieme. Maschi poco più che ventenni, in completi su misura che rimandano indietro una luce perlata e colli stretti in cravatte i cui nodi sono stati una sfida ostica e in papillon dai colori a contrasto, celano lo sguardo su di giri dietro occhiali stondati che sbordano dal profilo dei loro visi magri – anche se qualcuno meno magro degli altri – lasciando spuntare sopracciglia affilate, scure, delineate dalla punta dell’eye-liner delle loro fidanzate.
Un rombo in sottofondo, poi più intenso. Uno stridio di gomme; un dai e leva di gas; una sterzata stretta nella curva che segue il muro antico; la sagoma dell’Alfa farsi strada nella stradina stretta fino a invadere la piazza in pieno e fermarsi al centro, con un’ultima sgommata per frenarsi.
Il Poliziotto d’eccellenza, impavido come solo chi combatte il male nelle periferie, scende dall’auto in un gesto cauto, intirizzito dalla divisa di ordinanza. Più un’armatura che una livrea, un’uniforme blu con spille multicolore appuntate al petto; un cappello alto e inflessibile; due guanti abnormi – fuori misura anche per lui, il cristone di due metri per centoventi chili – rigidi e a forma di imbuto, che partono stretti sopra il polso per poi slargarsi in corrispondenza del gomito, e dare l’idea che possano sfilarsi da un momento all’altro; la sciabola stretta nella mano destra; Ray-Ban specchiati, a nascondere – perlomeno alla luce – i segni della devastazione dell’addio al celibato di poche ore prima.
Momenti di incitamento; slogan di fratellanza; saluti corporali tra amici; pacche e bacetti più tirati alle ragazze, che se ne vedono bene di non fare il guancia contro guancia, per non sbavarsi il trucco e semmai contaminare la divisa.
“Aho, ma quando cazzo arriva, ‘sta sposa?” Un lieve divaricamento delle gambe; un leggero calcetto prima con una e poi con l’altra; un portarsi il palmo all’inguine; un sistemarsi i boxer all’altezza del cavallo.
“E statte bbono, Carlè, quella viene coi cavalli, mica caa Ferari. Che nun ce lo sai?” Uno sbuffo delle labbra per far fuoriuscire il fiato sufficiente a spostare un boccolo scappato all’incastellatura.
Un coordinato zoccolio di equini annuncia la venuta della protagonista. Quattro, tutti bianchi, possenti e fieri come quelli di Caligola che il suo, di cavallo, l’aveva persino proclamato senatore. La carrozza, bianca anch’essa, adornata di drappi cadenti e fregi dorati, appena sufficiente nella sua magnificenza a ospitare la Sposa, immersa in metri di tulle, con lunghe ciocche nere appuntate si lati della fronte e perfettamente ricce che fuoriescono da quello che sembra un carico di ovatta.
Alza la mano, saluta la plebe – almeno per oggi, lei si sente in un gradino superiore – mostrando così le sua mani celate in guanti elastici, disseminati di Swarovski, che le arrivavano alle spalle, sfiorando il pizzo del corsetto.
“Ammazza quant’è bella, pare ‘na regina.” Un accenno di luccichio nel bordo inferiore dell’occhio di una lontana parente, che a breve sarebbe diventato lacrima, e rubinetto aperto per il resto della cerimonia.
Il maschio Alfa, con il gessato blu notte rigonfio di orgoglio, si avvicina alla carrozza, tende la mano, afferra la figlia e la fa scendere con leggiadria, come se mai avesse fatto altro nella vita – oltre maneggiare armi e lucrare sul contrabbando – rimandando la commozione al momento esatto in cui quel “sì” sarà ineluttabile, e lui saprà di averla persa per l’eternità – anche se tornano, le regine, perché il regno nelle quali sono venute al mondo è anche quello che nel mondo le mantiene.
“Alla fine quant’è lungo ‘o strascico der vestito, dieci metri? Mortacci sua! Capace che rimane fori daa porta.”
La madre della sposa, leggermente in disparte, respira ed espira, stringe e rilascia i pugni, apre e chiude gli occhi, tende e rilascia le labbra. Sanno tutti che il danaro per la cerimonia non proviene dalle sue tasche ma da quelle del maschio Alfa  – tasche foderate, tasche dell’interno di una giacca D&G, tasche rigonfie pure adesso, che nascondono pacchetti di contanti per le mance. Pacchetti, non banconote singole.
Ma i genitori dellʼeletta, in procinto di proclamarsi congiunta a un rappresentante delle forze dellʼordine, anche se separati – ormai prossimi al divorzio – devono sedere sulle panche in prima fila.
Non ci sono damigelle all’altare, solo i testimoni, che se ne stanno speculari, con completi uguali per gli uomini, – ma con diverse tonalità di grigio madreperlaceo, intonato col panciotto e le scarpe lucidate a punta – mentre le due ragazze, una più in carne dell’altra, sono entrambe ingolfate in varianti di involucri di caramelle rosa antico.
Le dita dell’organista affondano nei tasti, plasmando le note dell’Ave Maria con una cadenza diluita per permettere alle emozioni di fluire, di insinuarsi sotto gli abiti freschi di stiratura, che stanno iniziando a sgualcirsi e saranno del tutto segnati da pieghe scomposte una volta assecondato il continuo su e giù dettato dal prete.
La madre della sposa tira su con il naso, appoggiando un Kleenex ripiegato appena sotto gli occhi, prima uno e poi l’altro, spalancando le orbite per non far colare il mascara, fossilizzando il viso in un’espressione che sembra di stupore. “La Madonna, Arma’, me so’ commossa! Quant’è bello er sòno dell’organo…”
“Fallo esse pure brutto: trecento euri pe’ fallo sona’.” Il maschio Alfa risponde all’ex-moglie mentre solleva il mento verso la sposa, che ha ormai ha concluso la lunga camminata segnata dalla guida scarlatta, e le lancia uno sguardo affettuoso, da sovrano prossimo all’abdicazione. E, in effetti, lo strascico, appendice del ricco vestito di multistrati in macramè – cosparso di diamantini, così tanti da sembrare costellazioni sovrapposte – finisce giusto nel punto in cui, ai due lati dell’entrata, emergono le acquasantiere.
Allo stesso modo delle capziose acconciature, anche il make-up delle invitate ha resistito al cataclisma emotivo preannunciatosi da mesi, tutto merito di quel truccatore delle star che si era dimostrato dispendioso quanto meritevole di devozione.
“Se magna o no? Che s’è fatta ‘na certa.”
Gli improvvisati fedeli escono a seguito dei novelli marito e moglie; il riso, estratto a manate da cartocci adornati di roselline posticce, si innalza in aria in una nube e si abbatte su di loro come grandine; un’amica della Sposa prende la mira troppo bene e la centra in pieno volto.
“Ah regà, annatece piano, che ve pòssimo!” Risate frivole, bonarie, il pianto sfocia in liberatoria ilarità.
Ripreso possesso delle vetture – tirate a lucido pure loro, con fiocchi bianchi fissati alle antenne – parcheggiate tra le vie tortuose dell’Aventino, la ciurma si dissemina nelle strade gremite del sabato pomeriggio, tutti nella direzione del rinfresco.
Clacson molesti di diverse intensità – taluni rafforzati da braccia fuori dal finestrino che danno aria a trombe bitonali da stadio – seguono in corteo il cocchio della Sposa, i cui cavalli da tiro, abituati come sono al trambusto romano, rimango placidi e obbedienti oltremisura.
“’O sai chi ce s’è sposato a Palazzo Brancaccio? ‘Ndovina ‘n po’: Totti!”
“Me cojoni.”
Arrivate a destinazione le auto si radunano nei dintorni delle faziose mura del palazzo, ricreando un incastro simile a quello dei vecchi mattoni. Ne escono figure spossate, a cui è calato il tasso alcolico nel sangue.
“C’ho ‘na fame che me magnerebbi ‘n bove.”
“N’artro? ‘N t’è bastata ‘a bistecca de ieri sera? Erano quasi du’chili. Guarda là, c’hai ‘na pansa che pàrono sette.”
Movimenti di stiramento; braccia in alto; schiene allungate all’indietro con mani sulle reni; sbadigli; estensioni cervicali; pantaloni tirati su; gonne fatte scivolare sui fianchi snelliti da diete improvvisate per non sfigurare.
Come cavallette frementi in attesa di proclamare l’Apocalisse, gli ospiti del sodalizio si gettano sui dieci tavoli di buffet e tre di bevande, tutte alcoliche. Per i bambini stand a parte, con un clown che si diletta in faccette storpie con simpatia forzata, mentre i piccoli regnanti – in tutto e per tutto miniature del loro equivalente adulto – assistono empi, tentando di togliersi gilet da sotto minuscoli frac e sfilarsi ballerine con pon-pon di pelo.
“Anvedi che robba!” Dita che afferrano alla rinfusa; piatti di dimensioni ridotte ma riempiti a strati fino a sembrare cupole sbilenche in procinto di disfarsi; bicchieri colmati più e più volte con i bordi ormai sporchi di rossetti a lunga tenuta e unto dei fritti.
Gli Sposi arrivano con calma – al ritorno da Caracalla, dove si sono recati per le pose che poi stamperanno in 3D per appenderle accanto al letto – e la loro entrata è scenica come quella dei veri membri della nobiltà. Di nuova grida compiaciute, calici innalzati, cori per il brindisi, inni.
La fontana al centro della chiostra zampilla iridescente, sotto l’ultima luce del pomeriggio, in un perpetuo gorgoglio composto, in sottofondo una musica da Buddha Bar che proviene dall’interno della sala.
Delle sale, precisamente. Perché le stanze per i trecento invitati sono quattro.
“Quattro più una.” Precisa il maschio Alfa. “Ar tipo che m’ha affittato la baracca j’ho chiesto: e quaa camera quanto costa? M’ha risposto: so’ duemila euri. Sticazzi, la pijo. Pure se rimane vòta.” Si accomoda dando uno sbuffo con lei mani sui pantaloni. Il posto prossimo al suo è assegnato a quella che fu la sua consorte e che svela lo sgomento nei movimenti tesi, nevrotici, agitata in un vestito che le mette in evidenza il ventre gonfio. Anche l’abito di lei è firmato – Givenchy, per la precisione, comprato da Clark, a piazzale della Radio – eppure non la valorizza. Niente hanno potuto fare nemmeno il taglio a caschetto platinato e il trucco, ormai ispessito e in procinto di sciogliersi per via della temperatura. Dall’altro lato del maschio Alfa cʼè la nipote preferita, figlia della sorella, una diciottenne smilza in abitino rosso con spalline di perle – e come se l’avevano messa in guardia sul non indossare quel colore in presenza della sposa! – che continua a masticare la gomma, la tira fuori quando si mette in bocca uno dei grissini, per poi riappoggiarla sulla lingua.
Gli Sposi, subito dietro il tavolo dei parenti prossimi, si lanciano occhiatine compiaciute e allo stesso tempo palesemente tese. Lui si è sfilato i guanti, ma mantiene la spada guainata vicino alla sedia, e di tanto in tanto la controlla, dovessero rubargliela per canzonarlo.
I camerieri, in una coordinata coreografia, si sparpagliano tra i tavoli con i piatti tenuti abilmente su palmi aperti, avambracci, e pieghe dei gomiti.
Il maschio Alfa attira l’attenzione della tavolata, ivi compresi i consuoceri, entrambi con la bocca sformata da denti posticci. “Mo lo vedete che bendiddio! Tre antipasti, tre primi e tre secondi!”  Dà una gomitata alla nipote. “M’è costato trecento euri a cranio, mica cazzi.”
“A papà, ebbasta!” La sposa, dai due metri di distanza, enuncia il suo dissenso posizionando le mani a paletta ai lati della bocca.
Gli invitati brindano di nuovo, l’uno con l’altro, già alticci, ma con l’arrivo del primo antipasto cala il silenzio sacrale che precede l’assaggio.
“A zi’, so bboni ‘sti moscardini.”
Il maschio Alfa si sistema sulla sedia. “Nun so’ moscardini, so’ polipi tritati.”
“Ma so’ piccoli, zi’, so’moscardini.”
“Si tte dico che so’ polipi tritati, so’ polipi tritati!”
“Allora bboni, ‘sti polipi tritati.”
La Sposa scosta la sedia dal tavolo. “A papà, e t’ho detto basta!” Le mani di nuovo tese ai lati del visto, per dare potenza al tono e sormontare il brusio.
“Bella de zio, ma dimme: che cell’hai er fidanzatino?”
“No, ziʼ, io no. E dai che me vergogno…”
“Dai retta allo zio tuo, che mo ce penso io. Cèsare, Cèsare! Viè qua, che te devo presenta’ ‘sta bomboniera.”
Una figura allampanata, sparuta in pantaloni rigirati alle caviglie e camicetta seminata di teschi – con la ripetizione della scritta rebel sotto ogni figura – si avvicina al tavolino. “Piacere, io me chiamo Césare.”
Il colorito della nipotina d’improvviso si intona a quello dell’abito. “Piacere, Cinzia.”
Ne segue un imbarazzo denso come il vapore che risale dalle pietanze. “Sei un ribelle?” Chiede lei.
“Ma che stai a di’?”
“Ce l’hai scritto sulla majetta: rebbel.”
Lui sbilancia la testa verso la camicia, in un imponderato smarrimento.
“Lascia perde Cèsare. Dimme, che fai de lavoro?”
“Io? Disosso.”
“Cioè?”
“Faccio er disossatore. De carni bovine.” Finalmente fiero, calpestando un terreno sul quale si sa destreggiare, estrae dal taschino un biglietto da visita con al centro la figura di un toro, mal rifinito, con del fumo grigio che gli esce dalle orecchie. La dicitura – ben chiara, in grassetto, sottolineata – indica: Sacchetti CesareDisossatore carni bovine. La ragazza afferra il biglietto e lo fa sparire nella borsetta di paillettes, simulando un reale interesse che svanisce dal volto giusto un attimo dopo.
Finito l’andirivieni dei camerieri impettiti e riverenti come servi della gleba, il brindisi finale si annuncia con grida, e qualche rutto giunto dal fondo di una delle stanze inzeppate di pance turgide; pantaloni slacciati; piedi ormai scalzi; infanti inzaccherati di sugo che si rincorrono e si lanciano i resti del soufflé di gamberetti.
“Ai sposi!” Tintinnii di preoccupante fragore risuonano in un eco stridente che dura diversi minuti.
La madre della sposa ha come un tremito, sobbalza sulla sedia, di nuovo un’espressione di stupore, stavolta non dovuta al pianto. “Armà, me sa che sto a caca’ sotto.” È così che si rivolge al maschio Alfa. “E te pareva.” Fa lui. “Levate, daje, nun me fa fa’ figure demmerda, come ar solito!” Lei si alza da tavola con troppo fretta per non destare sospetto negli altri commensali. A passo svelto – cercando a tratti di rallentare e fingendo di ammirare il susseguirsi di specchi barocchi nel lungo corridoio – raggiunge la toilette delle signore. I gabinetti sono tutti occupati. Con altrettanta fallimentare scioltezza, e tenendosi ferma con le mani la base dell’addome, si chiude nel bagno dei portatori di handicap. L’ampiezza dell’ambiente potrebbe permetterle di assumere una posizione agevole e defecare compostamente evitando di entrare in contatto la tazza, bensì intonsa, e inzaccherarsi il vestito griffato. Allora si tira su la gonna, portandosela quasi dietro la nuca, china il busto in avanti e si libera, coprendo i rumore con colpi di tosse simulata. Ma quando, sospirando per aver ripreso leggerezza, getta uno sguardo water, nota suo malgrado che delle sue feci non v’è traccia. Tremolante, instabile sulle decolté, si gira e lo vede. Tra gli arabeschi dorati e fastosi come decorazioni della corte di Versailles, c’è l’affresco grondante dei suoi escrementi liquefatti – e se non fosse che lo sfondo della carta da parati è color avana, si sarebbe anche potuto mascherare tra i ghirigori. Con il viso avvampato dal turbamento e le gesta impacciate per via dell’ansietà di ripulire, cerca la carta. Ma la carta non c’è. Con gli slip ancora calati sulle caviglie e continuando a tenersi su la gonna per non farla scivolare sui glutei imbrattati, arranca per il bagno, controlla veemente dappertutto, persino dietro il termosifone e sotto il lavandino, spalanca lo sportello del mobiletto di radica a lato della porta. Rapidamente si rassegna ai tentativi vani. Si sfila le mutande, e cerca di ripulirsi tra la piega natiche, poi le getta nel wc e tira la catena, in attesa che lo sciacquone porti con sé i resti della nauseabonda quanto involontaria nefandezza. Delle voci al di là della porta annunciano che qualcuno è in attesa che il bagno si liberi. Bussano. La porta si apre.
“Mammamia, ragà, nun potete capì che schifo che lascia la ggente…” Dice lei, facendo roteare gli occhi. “‘Na cosa ‘ndegna.” Sventola le mani davanti al viso come a scansare l’olezzo.
Quando ritorna al tavolino trova le sedute vuote. L’intera sala è un sentiero sconnesso disseminato di tovaglioli bianchi macchiati, tovaglie penzolanti da un lato, composizioni floreali disfatte, giacche e scialli sbilenchi sulle sedie.
Nella chiostra del palazzo, illuminata flebilmente da fiaccole in vasi di vetro, sono tutti in attesa della torta. Gli Sposi si sono dileguati – si stanno accertando che i due momenti clou della serata siano attivati con il giusto tempismo – e riappaiono, tenendosi per mano, da una zona buia appena prossima alle cucine.  Dietro di loro quattro camerieri spingono una riproduzione fedele e in scala di Piazza di Spagna, riposta su un tavolo di tre metri per due e corredato da solide ruote. Il giardino si illumina, da ogni anfratto fra l’edera e campanule appena piantate, fuoriesce un fiotto di luce. La folla – ormai assuefatta da abusi di ogni tipo – si gongola, un tripudio di o nenné o nannà.  Ultimi pianti sfociano da sotto ceroni di fondotinta compatto e ciglia finte. Ultimi residui di MüllerThurgau si svuotano in attesa delle prossime coppe ricolme di champagne.
“Ammazza però, che sboronata ‘sta torta. ‘Nte pare che hanno esaggerato?”
Gli Sposi si abbracciano senza abbandonarsi ad eccessivo entusiasmo – persino lui, dalla sua statura spropositata, non riesce a raggiungere l’altezza della scalinata – e gli amici gli si accalcano intorno per fare le foto. Da una fontana vera, a motore, sgorga l’acqua al centro del dolce. Il fotografo si mostra reticente perché, nonostante prosegua all’indietro fino quasi a cadere nella fontana, nell’obbiettivo non riesce a inquadrare la magnificente opera di pasticceria e la combriccola riposta tutta attorno. Allora fa gesto di stringersi, e guarda di nuovo nella camera, di stringersi ancora, e riguarda, ma nulla. Il flash scatta più e più volte, fino quando in un ultimo cenno spossato mima il permesso di continuare con la cerimonia di chiusura.
Lo Sposo, tirando indietro il petto per apparire in tutta la sontuosità da ufficiale, si gode l’attesa occasione di sfoderare la sua scimitarra. La sfila dalla guaina in un gesto amplificato, la libra in aria, assumendo la posa impropria di chi sa maneggiare le armi, e per poco non prende la madre, che si ritira allarmata all’indietro, coprendosi il volto con la stola di seta turchese.
La spada, trovata la sua fermezza tra le mani del gendarme, affonda lasciva nello spesso pan di spagna, intervallato da vari strati di ripieno. La dimensione della prima fetta non è affatto regolare tanto è tagliata di sguincio, e ciò che ne risulta è un triangolo isoscele con la punta sformata dal bordo di uno scalino di Trinità dei Monti. La Sposa saltella e ci infila la mano. Con l’unghia ne raccoglie la panna in superficie e la lecca con la punta della lingua.
Un’esultanza compatta distrae il cameriere che porta il vassoio con i flûte – per un poco vacilla, ma il carico rimane miracolosamente in equilibrio – che viene svuotato in fretta da un accavallamento di mani in lotta per arrivare prime; moltitudini di labbra incontrano il bordo smussato del cristallo; in decine di esofagi discende Cristal appena sfilato da vasche di ghiaccio. Una deflagrazione sorprende i presenti ma senza scioccarli davvero. Era stato annunciato – di voce in voce, con la premessa di non lo di’ a nessuno perché è ‘na sorpresa, è pure illegale, ma a cose fatte ar massimo pagheno la murta – che ci sarebbero stati i fuochi d’artificio.
La notte romana – ormai esclusa dal suo fascino contemplativo – si riempie di boati. Il pregiato spicchio di cielo rimasto libero sopra Palazzo Brancaccio si affolla di scintille colorate che cadono a cascata; che scivolano a grappolo; che si accumulano in crescenti boati; che si sparpagliano come schegge di vetro, intorno al nucleo fulgido di un unico bagliore.

di Beatrice Galluzzi

Illustrazione in copertina di Beatrice Nicolini


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