Le onde si frantumano contro i frangiflutti della banchina e sollevano creste di schiuma, cristalli iridescenti incastonati per un solo istante nell’aria che odora di salsedine. La mareggiata erode la costa, rosicchia rocce candide e frastagliate. Mentre il cuore della città riposa sotto una coltre di nebbia salata, le strade rimangono abbandonate e le finestre sbarrate.
Il vento spazza il molo con fruste d’aria livida. Pioverà. Pioverà ai piedi della scalinata di marmo e sul tetto della chiesa decadente affacciata sul mare, sacro baluardo contro la tempesta. Le porte di legno massello sussultano sotto le spinte del vento, una testa d’ariete che prova e riprova a sfondarle. Un intenso fischiare s’insinua tra le fessure delle vetrate, accompagna spifferi gelidi e umidi di mare. La muffa mangia le pareti e gonfia lo stucco che a tratti cade in scaglie biancastre. La chiesa sembra respirare mentre il vento la riempie e la svuota.
Note d’organo d’improvviso rimbombano sulle teste chine degli accoliti in preghiera. Stringono le mani, poggiano la fronte sulle dita incrociate. Non osano sollevare lo sguardo sull’essere che stanno venerando. Chiedono muta clemenza, pregano per la fine della tempesta, temono che sfondi anche quelle porte e allora nulla si porrà tra loro e le onde del mare. Saranno trascinati a decine per le caviglie, sbattuti sulle rocce come i polipi che i marinai ammazzano contro le pietre.
Due figure, una donna ed un uomo indossano maschere bianche, impassibili fogli di carta su cui ognuno può disegnare le proprie sembianze. Nutrono l’essere con badili di duro carbone, lo spalano da montagne ammassate ai lati dell’altare su cui è accasciato. Lurido e putrido ingoia con foga tutto ciò con cui lo nutrono.
Il grasso si arrotola intorno alla sua carne come pieghe di pelle unta. Il cuore a stento trova spazio per battere tra i polmoni e la gola, annegato dall’adipe. D’un tratto tossisce. Allunga le mani paffute in cerca di aiuto, ma gli accoliti si ritraggono terrorizzati.
Le due maschere bianche continuano a spalare carbone, gli riempiono la bocca fin dentro la gola e così ingoia in cerca di aria. Porta disperatamente le dita tozze al collo, cerca di strapparsi la pelle, si graffia con le unghie. Soffoca tra i grugniti sommessi, latrati acuti che feriscono le orecchie dei presenti.
I fedeli trasaliscono, persino le maschere lasciano cadere i badili che si schiantano fragorosamente al suolo. L’abominio si agita come un verme, frana dall’altare e i rotoli lo schiacciano a terra. Si accascia su se stesso, afferra i lembi di pelle e grasso, li straccia. Fiotti di sangue cadono come una cascata fino ai piedi dei presenti che arretrano disgustati.
Il verme continua a contorcersi per scrollarsi di dosso l’involucro di grasso. Il cuore di chi guarda quello spettacolo sussulta di fronte il mostro nero che ne emerge. Ha un ringhio acuto che sprigiona con rabbia, i presenti gemono, le vetrate sussultano fino ad infrangersi. Il vento si scaglia furente all’interno della chiesa.
Il mostro avanza di un passo, le chele scure e pelose schioccano come meccanismi di una serratura. Un altro passo porta il mostro ancora più vicino. Afferra una delle maschere e ne divora la testa che si stacca con un rumore secco, raccapricciante.
Gli adepti della sua chiesa emettono un grido che fino ad allora era rimasto imprigionato nelle loro gole, ma prima che il portone venga aperto il lepidottero si abbatte su altre vittime. Divora due, tre, quattro teste, poi le imposte di legno si spalancano.
Gli accoliti si sparpagliano e molti di loro si gettano in acqua, affogano schiantandosi contro la scogliera. Chi ancora non è stato inghiottito dalle fauci del mostro cerca di fuggire le fauci del mare, gli altri chiudono l’ingresso della chiesa e gli danno fuoco.
Il vento alimenta l’incendio che si propaga in fretta. Le grida del mostro sono acute e feroci, strazianti lamenti contro il dolore delle fiamme, spaccano i timpani e la tempesta.
Il cielo plumbeo si divide, uno squarcio celeste lo illumina d’improvviso come una crepa, che rapidamente si allarga insieme al calare dei lamenti. Il sole risplende freddo sulla baia, d’improvviso c’è calma. Il mare è ancora schiumoso e scuro, tra le rocce galleggiano i cadaveri. L’ultimo uomo in piedi si volta per guardare il massacro che tinge l’acqua di rosso. Cede come un’asse spezzata dal tempo, si accascia sulle ginocchia, sopraffatto e stanco.
di Andy Arton
Appassionato di letteratura di fantascienza dal primo grande prevedibile amore: “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?”. Quelle pecore elettriche lui ha continuato a sognarle nonostante la certezza di non essere un androide. Scrive da quando ha imparato a farlo, convinto che tra realtà e fantasia vivano le storie migliori. Spera che la sua vita possa esistere in quello spazio incredibile.
Illustrazione in copertina di Andrea Stendardi
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