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La ristrutturazione del mondo
Parole di Alessio Simoncini ~ Illustrazione di Andrea Stendardi
Posted in Narrazioni on 28 Ottobre 2020 37 min read
La quiete e il cappuccio Previous Next

Di quella che pochi attimi prima ci era sembrata una piccola piazza molto caratteristica, dal terrazzo di casa sua, non c’erano più tracce. Calle Amor de Dios, che avevamo percorso in pochi minuti, strisciava facendosi spazio sull’asfalto bollente, allungandosi chilometrica sotto di noi. Siviglia respirava piano nella notte, le sue strade giocavano a scambiarsi di posto, a rubarsi i locali e le piazze, rincorrendosi veloci ma prestando attenzione a non svegliare quel grande corpo sul quale si muovevano meste. Ogni mattina la città era diversa. Matasse di asfalto e mattone, al sorgere del sole, si districavano in perfette linee chilometriche, mentre enormi viali lasciavano spazio a dedali di vicoli frammentati e stretti. Tutto nel silenzio opaco della notte, sotto la luna che brillava sul Guadalquivir e che faceva splendere la Torre de Oro.

Ero partito con qualche amico senza un programma preciso. L’idea generale era arrivare a Tarifa, affacciarsi sul Marocco e tornare indietro. Respiravamo l’aria spagnola da pochi giorni ma avevamo già conosciuto qualche ragazzo, soprattutto la seconda sera, tra una cervecita e l’altra nelle strade di Triana. Erano stati loro a raccontarci di quella particolarità che hanno i piccoli quartieri dell’Andalusia, alla quale non sembravano dare particolare peso.
«Sereno, hombre, sereno», dicevano, «para ir donde quieres, siempre todo recto. El camino se adapta».
Nei giorni successivi, ci rendemmo conto di quanto avessero ragione. Vagabondavamo per ore in cerca della giusta strada, fino a che poi, quando ci convincevamo di averla trovata, eccoci arrivati. Bastava tenerlo bene a mente.  El camino se adapta.
Di quella mattina ricordo un gran baccano, tonfi sghembi di martellate sul ferro e botte sorde, urla, risate e musica. Un oceano di musica. Chissà da chi partono certe decisioni, mi chiedevo sulla via del ritorno. Si dice che per cambiare abitudini ci vogliano quattro generazioni, agli operai di Siviglia bastò una notte. Come sempre, alla prima martellata segue la seconda, poi la terza e così via fino a che il lavoro non è concluso. Ma se il lavoro è la ristrutturazione del mondo immagino che serva qualcosa di più di un semplice martello.
Ricordo un caldo tremendo, una luce soffusa e un grande cerchio alla testa. Mi ero svegliato accanto a questa ragazza. Ci eravamo conosciuti il giorno prima e mi aveva fatto da guida per tutta la città, avevamo passato la serata insieme e più tardi, mentre le strade cambiavano forma e lunghezza, mi aveva portato a casa sua. Abitava in un piccolo appartamento in Calle Amor de Dios che condivideva con altri tre o quattro ragazzi. L’avvicinarsi di settembre aveva svuotato la casa che, fino a pochi giorni prima, era vissuta da studenti in Erasmus, lavoratori stagionali e altri ragazzi in cerca di indipendenza e instabilità economica. Nelle loro camere vuote c’era odore di autunno e polvere.
Mi aveva svegliato quel vociare che proveniva dalla strada. Me ne stavo in quel letto a una piazza e mezzo, steso a pancia in giù, mezzo affogato in un mare di sudore. Erano le prime luci dell’alba e la sveglia non avrebbe suonato prima di un paio d’ore, credo. Lei continuava a dormire indisturbata mentre io cercavo con tutto me stesso di ritrovare il sonno perduto chissà dove, ma quel parlottare era sempre più insistente. Rimbombava nella mia testa come se tanti piccoli insetti si arrampicassero fin dentro le orecchie, arrivando dietro gli occhi per poi farsi saltare in aria nel mio cervello. Poi una martellata, poi un’altra e un’altra ancora. Poi, silenzio. I nostri corpi divisi solo da un lenzuolo umido. Steso sul letto, guardavo quella crepa sul soffitto che la sera prima aveva iniziato ad ingrandirsi sopra la testa della ragazza. Nulla si muoveva in quella stanza, adesso. Mi trovavo nella spiacevole situazione di doverla svegliare per chiederle il telefono – il mio era sparito la sera prima – dato che, con gli altri ragazzi, avevamo previsto di lasciare Siviglia in mattinata e non sapevo che fine avessero fatto. Ma dormiva così ostinatamente e a discapito di tutti quei rumori che mi sembrava scortese svegliarla. Rimasi ancora qualche attimo a fissare quella crepa, gustandomi la mia emicrania e pensando alla strada che avrei dovuto fare per tornare a in quel buco di stanza che avevamo trovato con i ragazzi e che, ironicamente, avevamo preso a chiamare casa.
«Sereno, hombre, sereno. Siempre todo recto», pensai alzandomi dal letto con un mezzo sorriso.
L’appartamento era ancora più deserto della notte prima, in terra c’era ancora più polvere e i vecchi inquilini erano sicuramente ancora più lontani, spersi in qualche angolo del mondo. Presi una sigaretta dal suo pacchetto e andai sul terrazzo dove la sera prima avevamo avuto quella conversazione insensata sul rapporto tra commedie rosa e la guerra fredda, e dove avevamo visto sparire la piccola piazza proprio sotto di noi. Nel cielo si trascinavano sempre le sfumature blu cobalto della notte e una leggera brezza proveniente da ovest portava sulla mia pelle tutto il nero della città.
Da lassù non vedevo niente di sorprendente. Qualche curioso, sentiti i colpi, si era affacciato come me e si stropicciava gli occhi dal balcone. Qualcuno era già pronto a uscire e si era sporto, per un frettoloso secondo, con una tazza di caffè tra le mani. Qualcuno stava rientrando in quel momento a casa e tentava barcollando di far entrare le chiavi nel portone.  Qualcuno ancora dormiva. Mentre, verso la fine di quella Calle chilometrica, qualcuno stava già lavorando. I rumori che fino a pochi attimi prima sembravano venire dalla strada erano lontani, e arrivavano fino a me e a quell’assonnata umanità trasportati dal vento.
Dopo aver preso un bicchier d’acqua, dovendo occupare un po’ di tempo, mi misi a cercare nel salotto qualsiasi cosa mi distraesse dal caldo e dal sonno. Iniziai a sfogliare un quaderno nero, apparteneva a un tale Pedro, o Carlos o a qualche altro nome spagnolo, che ne so. Erano appunti di un corso di storia all’università e a quanto potevo vedere doveva essere stato tanto interessante quanto generico, dato che gli appunti riguardavano, più o meno, tutta la storia dell’uomo. Dalla sua nascita in una savana primordiale fino al nostro vituperato ventunesimo secolo. Rimasi a leggere quella cronistoria dell’umanità per un tempo non quantificabile. Non so se il mio cervello si stesse rifiutando di funzionare per il poco sonno o se mi fossi addormentato senza accorgermene , ma tutti i fenomeni accennati nel libro presero vita in quel salotto spoglio e polveroso. Proiettata in un nembo caotico di polvere e immagini, in quella sospensione di vita che precedeva il giorno, osservavo tutta la storia dell’uomo. Me ne stavo, in mutande, tra i grandi condottieri e gli schiavi sacrificati per le loro ambizioni. Guardavo storie di popoli, di comunità che diventavano villaggi, di villaggi che diventavano regni, di regni che diventavano imperi e di imperi che tornavano villaggi. Tutte le diramazioni storiche si districavano davanti a me, come se germogliassero in fronde di complessità. C’era il sangue e il vino versati con lo stesso cinismo. I sacrifici aztechi, la caduta di Ninive, la mitologia greca, l’impero di Roma, le croci e le mezzelune, le guerre dell’oppio, Verdun, Hiroshima e la crisi del 2008. Gli scontri sanguinari tra dèi poliadi e la velocità irrefrenabile della locomotiva. Scorrevano davanti a me gli eponimi, le palingenesi rivoluzionarie, i conquistatori, le guerre, le rivolte, e una miriade di essere umani senza nome ma non per questo meno importanti. Ognuno di loro portava un segmento di storia e lasciava a me il compito di assemblarla. Una testimonianza della sua esistenza. Ma io ero in mutande, ero stanco e non avevo nessuna voglia di sforzarmi. C’era una certa linearità in tutti quei racconti, una coerenza che univa la prima scimmia che si era stufata di raccogliere pietre con i piedi e aveva deciso di camminare eretta, e io che me ne stavo su quel divano sfondato, leggendo l’agenda di una persona sconosciuta, perso in una città della quale non sapevo niente. Non riuscivo a trovare nessun significato in quel caos, mi sembrava solo che fosse tutto sbagliato. Che ogni volta che qualcuno aveva avuto la possibilità di scegliere da che parte andare avesse scelto male, portando con sé i destini di tutti. Chissà quante migliaia di anni, chissà quanti miliardi di persone, chissà quante strade possibili, quanti rami spezzati ancor prima di fiorire. Un sentiero unico che non ammetteva deviazioni, ecco cosa era la storia. All’uomo il compito di lastricarlo, nient’altro. Tutto ciò che era stato non poteva essere cambiato e sarebbe rimasto fedele a sé stesso, condannandoci al presente. Per un attimo l’abisso delle strade alternative balenò davanti ai miei occhi, profondo e coloratissimo come la speranza, ma avevo troppo mal di testa e mi stava pure venendo la nausea con tutto quel riflettere. Per cosa poi? Alla fine, quello che rimaneva era la somma degli errori di tutti gli uomini che prima di noi avevano avuto la brillante idea di popolare questo pianeta. Ecco cosa pensavo. Ma insomma, io che potevo farci?
«Todo recto, hombre, siempre todo recto».
Nel silenzio dell’alba, il chiacchiericcio di prima aveva lasciato il posto alla musica di un qualche stereo. Fissai il muro sporco dietro a un televisore che non c’era più, fuori la strada si stava nuovamente riempiendo. Chiusi il quaderno e tornai a stendermi sul letto, senza neppure avere un dio da accusare.
Lei era nella stessa posizione in cui l’avevo lasciata: sguardo rivolto verso il muro, capelli neri, corpo da ballerina di flamenco. Mi sdraiai al suo fianco un’altra volta e continuai a guardare quella crepa con la quale iniziavo a sentirmi abbastanza intimo. Mentre la musica continuava a crescere, erano riniziate le martellate. Impossibile che non sentisse nulla. Distolsi lo sguardo dal mio amato soffitto e le guardai la nuca, poi la schiena. Nessun movimento. Gli operai stavano facendo suonare qualsiasi canzone, da Sinatra a Britney Spears, una playlist che rendeva la situazione ancora più surreale. Più passavano i minuti e più aumentava il rumore. Le martellate adesso erano proprio sotto quella casa e dalle botte sembrava che stessero smontando tutta la via. Ancora, nessuna reazione. I colpi si avvicinavano secondo dopo secondo e adesso era come se gli operai fossero entrati nel palazzo e lo stessero distruggendo al ritmo di Bad Boys. Non so perché ma in quel momento mi sentivo come un fuggitivo, come colpevole di un crimine che non riuscivo a ricordare. Avevo iniziato a pensare che quelle persone volessero distruggere tutto ciò che si fossero trovate sotto tiro, e che stessero cercando proprio noi due. Quelle presenze nel palazzo mi inquietavano, senza motivo. Per di più, lei non dava segni di vita. Provai a darle una scossa.
«Ma cosa caz…  che succede?», disse in un sospiro, con i capelli che le coprivano faccia e gli occhi socchiusi.
Mi lasciai cadere sul letto.
«Ma che vuoi?», disse alzando la testa come se volesse cercare qualcosa nella stanza. «Allora?», incalzò.
«No, nulla mi sembrava che tu… lascia stare», risposi, «questi, comunque, ti stanno distruggendo casa». A quel punto mi sentivo molto più calmo, volevo solo sapere cosa ne pensasse. Lei rispose qualcosa del tipo «ah, be’, in bocca al lupo», e poi si riposizionò, intenzionata a continuare a dormire come se il mondo non le interessasse. Non ho ancora capito se quell’augurio fosse rivolto a loro oppure a me.
I muratori, comunque, continuarono a salire e dopo poco non sentii più nulla che non provenisse dalla strada.
Rimasi pochi attimi fermo nel letto, poi le chiesi il telefono e lei mi disse di cercarlo e di farci quello che volevo. Mandai un messaggio ai ragazzi, inutile chiamarli a quell’ora. Gli dissi che li avrei aspettati davanti al portone di quel posto scalcinato che chiamavamo casa.
«Io, insomma,» dissi «io andrei».
Lei mi guardò per la prima volta dalla sera prima.
«Spero di rivederti», aggiunsi, «lo spero davvero».
«Ma che ne so», disse lei, dandomi un buffetto sulla guancia.
Andai in bagno, mi tirai dell’acqua gelata sulla faccia e mi vestii. Sulla porta mi venne voglia di prendere quel quaderno e portarlo con me. Ma non lo feci. Lo presi in mano solo per strappare un pezzo di carta sul quale scrissi qualcosa che lasciai sul tavolo, poi me ne andai chiudendo piano la porta, portando con me l’illusione che quello stupido messaggio lasciasse la casa meno vuota.
«Todo recto, hombre».
 Per le scale non mi accorsi di nulla, ero impegnato a chiudere la cintura e a guardare la punta delle scarpe. La vera sorpresa arrivò quando aprii la porta. Mi fermai un secondo per comprendere bene quello che stava succedendo. Guardai a sinistra e poi a destra, rimanendo irretito dallo spettacolo del mondo che si disfaceva.
Gli operai si erano dati un gran da fare, la calle era completamente diversa rispetto alla sera prima e continuava a modificarsi davanti a me. Ogni edificio aveva perso la sua rigidità. I legami tra le molecole avevano abbandonato il loro potere aggregante e adesso stavano andando in fumo. Ma non c’era nessuna forza distruttrice in quel caos. Gruppi di particelle si raggruppavano nel cielo e formavano altri edifici che scendevano con dolcezza a terra, mentre le altre costruzioni lentamente lasciavano loro spazio. Procedeva tutto senza frenesia, senza rabbia, senza fretta, come se fosse tutto prestabilito. Solo la velocità delle nuvole era accelerata e, insieme ai nembi costituiti da ciò che prima erano cemento e ferro, combinavano forme geometriche mai viste, rifrangendo i raggi del sole e gettando mille colori sulla terra. Dietro le nuvole il cielo, dietro il cielo lo spazio e nello spazio le stelle guardavano impassibili quello spettacolo.
Feci un passo sulla strada, lasciando la pedana del palazzo e il mio piede affondò in un liquido caldo e grigio fino al ginocchio. Rimasi per un attimo immobile con un sapore di catrame sulla lingua. Per la strada non c’era anima viva ma la musica continuava a suonare nel vuoto, sferzate di vento nel deserto. Provai a muovere anche l’altra gamba, ma anch’essa affondò in quelle sabbie mobili di bitume. Dalle cime dei palazzi in evaporazione arrivarono schiamazzi da alcuni muratori, «attenzione, hermano, attenzione», urlano ridendo, «non vogliamo morti ancora prima che nasca il mondo». Capivo perfettamente le loro grida nonostante non sapessi una parola di spagnolo, rumeno, arabo o qualsiasi lingua parlassero. Li cercai con lo sguardo e ne vidi alcuni sui palazzi che facevano da angolo con Calle San Miguel. Se ne stavano ai piani più alti, senza protezioni. Si muovevano come lucertole sulle pareti esterne, e, quando si fermavano, le loro gambe si fondevano al cemento degli edifici, mentre le mani prendevano la forma degli arnesi dei quali avevano necessità. Individuai il gruppetto che rideva e gridava nella mia direzione. Vedendo il mio sguardo che doveva essere a metà tra lo spaventato e il dubbioso, gridarono di stare calmo, che non dovevo fare altro che capire quello che volevo fare e tenerlo bene a mente. Dovevo imparare a camminare secondo le nuove regole, dissero. Poi, continuando a ridere, si misero nuovamente a lavoro.
Mi guardai le gambe che continuavano ad affondare lentamente in quel liquido bituminoso. Rimasi pochi attimi immobile. Guardai gli operai ammirando la naturalezza con la quale si erano adeguati alle nuove regole fisiche di questo nuovo mondo, guardai il fiume nero nel quale ero immerso fuggire via verso l’orizzonte, guardai il palazzo dal quale ero uscito, che ancora resisteva monolitico alla rivoluzione. Pensai alla ragazza, ai miei amici e a tutti gli abitanti dei palazzi che scomparivano nel cielo, pensai alla mia camera, agli edifici della mia città e alla mia famiglia. Chissà come se la passava il mondo fuori da Siviglia. Presi un respiro profondo e mi calmai. Se anche il mondo fosse finito in quel momento, perché lasciarsi sprofondare? Appoggiai la mano su quel liquido denso e la mano percepì l’asfalto senza affondarci, appoggiai anche l’altra e, con poco sforzo, mi tirai fuori, tra gli strepiti gioiosi che scendevano dai palazzi all’angolo di Calle San Miguel. Risposi con un cenno della mano e cominciai a camminare lentamente, sperando di andare nella direzione giusta.
Camminando verso casa, vedevo la città destrutturarsi e rifondarsi. L’azzurro del cielo restava puro solo in alcuni punti, negli altri veniva contaminato dalle nuvole che lo opacizzavano come il segno delle labbra su un bicchiere di cristallo. La polvere del cemento sfumava dai tetti trasformando ogni costruzione in un piccolo vulcano. Eruzioni esplosive ma silenti macchiavano la città in continuo movimento. L’asfalto si mescolava con le mie scarpe, fornendomi informazioni a ogni metro senza rallentarmi. Era la città stessa a mostrarmi il cammino, non dovevo affaticare la mente con i ricordi nebbiosi della notte perché ogni insegna, ogni angolo, ogni vetrina, ogni cartello mi concedevano le informazioni di cui avevo bisogno. A parte i muratori sui palazzi, non avevo ancora incontrato nessuno ma le pulsazioni amorfe della calle mi trasmettevano un senso di umanità che mai avevo provato. Riuscivo a percepire ogni respiro delle persone che dormivano nelle case, conoscevo il numero esatto di abitanti, di camere, di bagni, di posate; potevo vedere tutte le foto sugli armadi, la polvere sui telecomandi di vecchi televisori, gli ammennicoli incocciati perché scivolati da mani maldestre, poi, naturalmente, i sogni, le paure, i desideri e qualsiasi altra parola sia usata per intendere l’insieme di forze che rende questi ammassi di epidermide e sangue e ossa che popolano il mondo capaci di muoversi, pensare, vivere e, qualche volta, affezionarsi. Per ogni via percorsa un’indefinita quantità di dati entrava nella mia testa per poi uscirne alla strada successiva. I muri avevano cessato di essere i confini dentro i quali nascondersi ed erano diventati i miei occhi e le mie orecchie, con i quali potevo sentire ogni respiro e ogni parola. Fu quel senso di empatia mai provato a suggerirmi che avevo fatto bene a tirarmi fuori dall’asfalto. Capii che tutte le persone dentro quei palazzi sapevano cosa stava succedendo, come l’avrei saputo anche io se fossi rimasto nella stanza, senza scendere per strada. Non dovevo preoccuparmi per loro, sarebbero stati bene. E questo bastava.
Le prime persone che incontrai furono quattro messicani: madre, padre e due gemelli. Stavano in piedi, fermi, mentre l’asfalto proseguiva sotto di loro. Il padre aveva una cartina della città ma non la stava consultando, quando sentirono i miei passi avvicinarsi i genitori si voltarono sorridenti mentre i figli presero a rincorrersi l’uno con l’altro, una polvere grigiastra si alzò dalle loro scarpe e creò una nebbiolina che avvolse tutta la famiglia. Mentre mi avvicinavo vedevo sempre meno distintamente le quattro figure che sembravano scomparire in quella nebbia, unendosi a essa e dividendosi dai propri corpi. Come fulmini all’interno delle nuvole si muovevano cercandosi e respingendosi, persino i loro pensieri sembravano tangibili. Più mi avvicinavo e più quel gas organico si mescolava con sé stesso, espandendosi e bloccando la strada. Ancor prima di accorgermene, ne ero circondato.
Iniziammo a parlare, o meglio a trasferirci informazioni in quella poltiglia metafisica di molecole, polvere e pensieri. Avvenne tutto nelle nostre teste, credo. Condividevamo ricordi ed emozioni, ripercorrevamo le nostre vite come si dice succeda in punto di morte. Gli occhi dei due gemelli erano lune di petrolio e io ci stavo sprofondando dentro. Durò un attimo, anzi meno. Lui sognava di fare il poeta, lei era figlia di uno dei più grandi industriali di Città del Messico che esportava Sombreros, tacos, immigrati, droga o qualsiasi altro ciarpame messicano. Lei odiava l’assertività del padre, la remissione della madre, il marmo della villa dov’era cresciuta, la rigogliosità del giardino, il servilismo dei visitatori, odiava il suo cognome, odiava la sua famiglia, odiava sé stessa. Le sue piccole rivoluzioni adolescenziali avevano portato il padre ad affidarle una misera parte di capitale e l’uso esclusivo della dependance nel giardino, che lei aveva prontamente rinominato “La casa della Poesia Messicana”, con una sacralità che già nel giro di pochi mesi si era convertita in ironia.
Quella casetta divenne meta di pellegrinaggio di moltissimi ragazzi. Straccioni, per come li vedeva il padre, gente senza dimora che veniva a mangiare e bere a sbafo, senza talento né ambizione. Dal canto suo, lei andava fiera dei suoi amici, incontrati nelle feste alle quali era andata sgattaiolando attraverso quel buco nel muro a ovest, nascosto dietro l’enorme agave. Altri li aveva conosciuti ai corsi di Lettere dove andava invece di seguire quelli in Economia. Gente senza talento né ambizione, certo, ma a lei andava bene così. I poeti sarebbero arrivati, prima c’era da costruire i presupposti per la poesia.
Lui aveva sentito parlare di lei dalla sua ragazza di allora, Monica, o qualcosa del genere. Lavoravano entrambi in un ristorante italiano piuttosto scadente. Monica, o qualcosa del genere, vide nella ragazza un’opportunità per lasciare quella bettola. Dicevano che ci fosse questa giovane poetessa che ogni sera giudicava nuovi poeti, dicevano che i più meritevoli potevano entrare in questo nuovo movimento letterario, chiamato materialismo poetico o qualcosa di simile, dicevano che era come vivere in una comune di Hippie nel giardino di un riccone, dicevano che se venivi accettato dalla ragazza potevi vivere solo di poesia e di nient’altro, questo dicevano. Ma nessuno sapeva chi fosse la ragazza. Nella casa c’erano sempre almeno quattro poetesse e nessuna padrona.
Monica, o qualcosa del genere, parlava all’uomo come se descrivesse un ritorno all’età dell’oro. Lui rispondeva che a nessuno importava della poesia, tantomeno della poesia messicana. Provò a convincerlo per mesi, poi disse che sarebbe andata senza di lui; disse che a lei interessava conoscere questa mecenate misteriosa, che voleva seguire la poesia, che si era stufata di quel mangiare scadente e di spaccarsi la schiena per servire pizza e pasta ai turisti che se ne fregavano, loro sì, del Messico.
 «Fai ciò che vuoi,» diceva, «continua a buttare il tuo talento».
«Il talento è roba da borghesi», rispondeva il ragazzo, terrorizzato all’idea di far giudicare le sue poesie ad altre persone. Ci vollero mesi di litigi, ma alla fine riuscì a convincerlo.
I due si diedero appuntamento davanti al cancello della villa. Lei passò il pomeriggio a rileggere le sue poesie, lui non ci provò neppure. Arrivò barcollante con quattro fogli di carta stropicciati nella mano destra. Lei non disse nulla. Decifrarono l’indovinello che la padrona aveva lasciato al cancello ed entrarono nel giardino. Lei era felicissima, lui a un passo da un attacco di panico. Entrarono nella casa, nel paradiso terrestre, nella terra dove era tornata l’età dell’oro, nella sacra dimora della Poesia Messicana e cosa trovarono? Un gruppo di ragazzi intenti a bere vino, a mangiare, a fumare e a coltivare ogni altro vizio. Si misero in un angolo, lei stava zitta, lui sorrideva mentre si versava ancora un po’ di mescal. La serata continuò così fino a mezzanotte quando uno di quei poeti beoni prese una sedia, la collocò in mezzo alla stanza, ci montò sopra e iniziò a parlare. Disse che era arrivato il momento per i nuovi di presentarsi, di leggere le poesie o sparire. Tutti i convitati si appiattirono in silenzio sui muri della stanza, in attesa. Monica, o qualcosa del genere, fu la prima ospite a montare sulla sedia. Recitò una poesia che sarebbe poi diventata celebre in tutta l’America latina, ma che in quella stanza non ebbe nessuna reazione che si discostasse dalla più totale e sincera indifferenza. La ragazza lesse un’altra poesia e la reazione fu la medesima. Rimanevano tutti in silenzio, fissandola come se aspettassero ancora una parola, ancora un verso. La ragazza non capiva se fermarsi o continuare. Non era chiaro se la sua poesia non suscitasse interesse o se fosse quel pubblico così strano e alticcio a non comprenderne il contenuto. Ma c’è davvero tutta questa differenza? La ragazza continuò a leggere fino a quando non iniziarono a cederle le gambe, poi continuò ancora. Analizzando la serata nei mesi seguenti qualcuno ipotizzò che il suo intento fosse dimostrare di poter leggere poesie fino allo stremo, come se la sua mente potesse andare oltre i limiti imposti dal corpo. Ovviamente, nessuno sembrò cogliere questo intento in quel momento ma la performance rimase celebre per i mesi a venire anche se nessuno capì il motivo reale. Il ragazzo, invece, prese la parola a notte fonda, quando nessuno aveva più voglia di ascoltarlo, poco male dato che lui non aveva nessuna voglia di leggere. Salito sulla sedia nel centro della stanza lesse poche parole che fluttuarono verso il centro del soffitto e si spensero scontrandosi come moscerini sulla lampada.
I due vennero accettati senza troppe smancerie. Erano tutti concordi sul fatto che prima o poi un collettivo di poeti avrebbe dovuto avere almeno un poeta. L’arrivo dei due ragazzi, o almeno della ragazza, sembrò l’occasione ideale.
Il gruppo crebbe notevolmente e con l’aumento degli inquilini fu necessario stabilire che solo chi avesse realmente necessità poteva avere un posto letto nella casa. Alcuni di loro troncarono tutti i rapporti con il mondo, altri rimasero legati alla propria vita e quel movimento fu solo un momento di evasione come mille altri. La coppia assunse un ruolo sempre più centrale, grazie alla determinazione di Monica e alla fantasia del ragazzo. Quello scalcinato collettivo con velleità artistiche per un breve periodo finì anche per avere un seguito notevole, ma la totale mancanza di serietà, la totale assenza di disciplina, unita alla più completa mancanza di ambizione, fecero in modo che praticamente nessuna delle loro poesie uscisse dal giardino. Come se la realtà che descrivevano esistesse solo in quel perimetro e le parole perdessero potenza nel mondo. Così, le giornate erano occupate da grandi discussioni sulla poesia, la letteratura e la storia; da noiosissime letture, da film, da alcolici e da sieste infinite, da riflessioni sui sogni più disparati e dal tentativo di redigere un manifesto artistico. Sforzo quotidiano che si concludeva sempre con un tragico fallimento. A sera, quel movimento di giovani poeti incapaci di formalizzare la loro idea di poesia camminava nelle strade di Città del Messico, eletti dal mondo a vivere tutte le emozioni dell’umanità. La padrona di casa, che negli anni aveva rilevato la sua identità solo a pochi adepti, guardava la coppia mentre fantasticavano sulle luci che uscivano dalle finestre dei palazzi, perdendosi nel blu del cielo come piccole stelle. Qualche volta, all’interno, si vedevano dei lampadari che cadevano dal soffitto, un televisore, una libreria, un quadro. Capitava che qualcuno si affacciasse da lassù e i due allora gli chiedevano cosa si provasse a vivere su una stella, quando non ricevevano risposte si mettevano a urlare sempre più forte fino a che non sporgeva una testa da ogni finestra e a quel punto dicevano «eccole qui le stelle del Messico, le più brillanti del mondo». Si muovevano sotto quella cupola luminescente e bluastra interpretando il ruolo che si illudevano il destino avesse scelto loro. Tra le vie di quell’enorme città che se ne stava stesa come un leviatano assopito si erano illusi di essere qualcosa più di un gruppo di ragazzi. Erano diventati un’entità, una forza storica capace di innescare il moto che avrebbe cambiato il mondo, se avessero voluto. Convinti che il mondo non avrebbe opposto resistenza, ma che fosse sufficiente ripartire dalle persone, dalla terra, dai sassi, dai granelli di sabbia e polvere. Ricostruire un dialogo con il mondo materiale attraverso l’immaterialità delle parole, ecco la funzione che attribuivano alla poesia. Altre volte, invece, la coppia se ne stava in disparte pensando a come sarebbe stato bello avere una stella tutta per loro e poter scegliere cosa mostrare alla strada e potersi affacciare dal cielo e studiare la vita degli uomini, distanti anni luce sotto di loro.
Poi tutto finì. Monica iniziò a pubblicare su riviste sempre più conosciute, discostandosi da quel movimento che voleva dare dignità a tutta la materia. Non le bastava, lei voleva scrivere del Messico e di tutta l’America Latina, quel movimento non era stato altro che un passatempo giovanile, niente di più. Il suo successo la portò sempre più lontana. Prima per giorni, poi mesi, infine, anni.
Non fu un commiato triste. Lui era certo che la sua vita sarebbe stata al suo fianco e non fece storie quando lei iniziò i suoi viaggi. Lei era certa di ritrovarlo al suo ritorno, pronti per perdersi insieme su tutte le strade del mondo cercando la stella da abitare. Anche quando si rincontrarono e lui si accorse di non provare niente di diverso da una leggera nostalgia, non fu triste. Quando, nell’ultimo abbraccio, sentì il seno premergli sul petto e le lacrime della donna bagnargli la guancia, e si rese conto che quella sarebbe stata l’ultima volta che avrebbe potuto sentire quel profumo di cenere e girasole che avevano i capelli di lei, e che non c’erano stelle nel loro futuro, non fu triste. Non stava salutando una donna, ma un ideale che aveva già abbandonato da tempo. Salutando Monica salutò la poesia, lasciandola libera di diffondersi in tutto il mondo. Esse non aveva più ragioni per tornare a Città del Messico e i due non si rividero più.
Anche quel movimento scalcinato perse piano piano tutti i componenti, finché non rimasero solo il ragazzo e la ragazza, diventati ormai quell’uomo e quella donna incontrati per caso nel cuore dell’Andalusia. Lei aveva amato così profondamente quella coppia e tutto quello che aveva rappresentato per la sua vita e per il suo movimento che finì per innamorarsi di lui. Lui non oppose resistenza, aveva ormai così tanta confidenza con quel giardino che si sentiva parte della famiglia che per anni gli aveva dato cibo indirettamente. Quando il padre della donna morì, mettendo lei davanti al suo inevitabile destino, lui fu lì. I due vennero coscritti nell’impero commerciale della famiglia e, alla fine, la poesia cedette il posto al marketing, la loro sconfitta fu così rovinosa che l’unico modo per affrontarla fu farsi forza reciprocamente. Unici superstiti di un movimento che non aveva avuto la forza di affrontare la realtà che avrebbe voluto cambiare e che si era limitato a lasciare un segno della propria presenza. Un dissenso che aveva brillato troppo flebilmente e che si era lasciato offuscare persino dalla luce delle stelle. L’uomo e la donna rimasero insieme, come custodi di quel passato, e così fecero fino alla nascita del nuovo mondo.
Questo è quello che mi trasmisero, o almeno questo è quello che ricordo. Non so nulla del Messico, non so nulla di messicani, non so nulla di poesia e mi va bene così. Non so se a loro arrivò qualcosa da parte mia, ma immagino di sì. Quando la nuvola dei pensieri si dissolse e tornai a camminare, loro mi seguirono nel mio navigare su quel fiume di asfalto e cemento. I tombini si erano trasformati in maelstrom dai quali rimbalzava un fascio di luce bianca che spediva in cielo tutto ciò che quel vortice risucchiava, come un fascio di luce riuscito a fuggire da un buco nero.
Prendemmo molte deviazioni, seguendo la corrente che certamente avrebbe portato me a casa e loro dovunque desiderassero. I bambini correvano qua e là entusiasti mentre i due genitori non sembravano prestare particolare attenzione alla situazione, come se in tutto quello non ci fosse niente che non avessero già visto. Forse era davvero così. Forse diventare adulti non è altro che sopravvivere alle apocalissi cicliche che distruggono i mondi quotidianamente; forse è imparare, giorno dopo giorno, a convivere con il senso di colpa dei sopravvissuti, continuando a cercare di non bagnarsi le scarpe mentre la nave affonda. In loro non c’era né malinconia né curiosità. Esistevano e camminavano sulla terra diretti, come me, verso chissà quale casa.
La seconda conversazione di quella assurda mattinata avvenne con un uomo, poco dopo. Lo incontrammo in Calle Jose Gestoso, poco dietro di lui era già visibile Plaza de la Encarnación e la Setas, che si scioglieva nel cielo, trascinata da brezze leggere. Camminava in cerchio, pensieroso, davanti a un cancello che la notte prima doveva essere stato di ferro, ma che adesso oscillava debolmente come se le inferriate fossero di liquirizia. Capimmo che era un muratore dalla tuta e dal caschetto che teneva tra le mani, unite dietro la schiena. Non sembrò accorgersi del nostro arrivo fino a che non passammo proprio davanti a lui, in quel momento fece un piccolo balzo e allargò le braccia mettendosi in allarme, più per sorpresa che per spavento. Rimase immobile per un secondo poi riprese a parlottare tra sé e sé. A differenza dei messicani, l’operaio rimaneva ben definito e, se non fosse stato per i connotati del volto che si muovevano costantemente sulla sua faccia, creando mille persone diverse, non ci sarebbe stato niente di strano in quell’uomo magrolino e leggermente incurvato.
Mi avvicinai con aria circospetta e chiesi gentilmente «Mi scusi, ma lei sa cosa sta succedendo?».
«Che succede? Ma come che succede? Non è evidente? Che succede, chiede lui. Qui si cambia il mondo, lo capisci? Lo ricostruiamo. Ci eravamo stufati, basta. Via, via, tutto via. Tutto da rifare, capisci? Oh, ma non costringiamo nessuno eh, tutti fanno quel che vogliono. Chi vuol restare a letto può farlo. Noi però non possiamo mica fermarci, capisci? E sennò poi quando li finiamo i lavori, capisci?», disse scocciato, come un maestro che deve ripetere la spiegazione per uno studente disattento. Anche stavolta, nonostante le lingue diverse, non ci fu nessun problema di comprensione. I messicani più avanti si erano fermati ad aspettarmi e, sentendo la risposta del muratore, si misero a ridere. I bambini saltellarono verso di me ripetendo «Capisci? Capisci? Capisci o no?».
«No, mi scusi, non capisco», risposi. «Vuol dire che tutta questa situazione è opera vostra?».
«Nostra e solo nostra, certamente! E di chi altrimenti?», disse con orgoglio. «Noi di Siviglia siamo stati i primi a rispondere alla chiamata del S.I.G.L.A. Sindacato Internazionale Generale dei Lavoratori Autocoscienti, capisci? Noi della sezione Servizi di manutenzione della parte ovest del Metropol Parasol o Setas, nella figura del suo segretario di sezione – nello specifico, me medesimo –, abbiamo contribuito fin dalle primissime fasi di progettazione, capisci? Pensa che ho avuto la fortuna di partecipare alla stesura del nostro Manifesto internazionale per l’autodeterminismo molecolare. Oltre a essere, ovviamente, curatore della rubrica Calcestruzzo e teoria dei quanti, nonché autore di Prolegomeni sull’autodeterminismo molecolare. La lotta di classe dell’uomo dentro sé stesso. Capisci? Quello che facciamo ha basi teoriche profonde e una partecipazione trasversale, altrimenti come potrebbe funzionare?».
Riuscivo a sentire le parole del muratore, a differenza dell’esperienza con i messicani che era avvenuta in una nuvola di immagini patinate e di ricordi confusi. Una comunicazione senza parole. L’uomo sembrò aver capito i miei dubbi e riprese a parlare, se possibile ancora più veloce di prima.
«Le parole o mentono o sono inutili, capisci? Perché o viviamo tutti secondi le stesse emozioni o ognuno è diverso dall’altro, capisci? Certo, una via di mezzo è possibile. Può capitare, in un mondo di individui che vivono nelle strette pareti dei loro corpi,  che ci siano persone che condividano quel miscuglio di sangue, cultura ed esperienze che poi ci definisce come esseri umani, e noi proprio su di loro vogliamo lavorare; l’autodeterminismo molecolare parla proprio di questo, un enorme calderone dove rimescolare tutto ciò che è accaduto e tutto ciò che accadrà, analizzarlo accuratamente, e trarne il meglio per il mondo, è chiaro? Ricostruire il futuro non dall’individuo ma dall’unione psicofisica della parte nel tutto, capisci?».
«No».
«Immagina che centinaia di persone stiano immobili in una piazza incapaci di vedere l’imminente tempesta, e che sia impossibile per chiunque convincerli a spostarsi, ci si interroga se il saggio, vedendoli dalla veranda di casa sua, dovrebbe tentare di convincerli a ripararsi, pur sapendo che questi non lo faranno, e quindi fare un’azione retta ma bagnandosi, oppure se l’azione più logica sia per lui rimanere sotto la tettoia all’asciutto. Capisci? È una storiella stupida, no? Però fa capire che spesso un’azione giusta può essere controproducente oltreché inutile. Ma se invece di convincere loro a ripararsi il saggio convincesse la tempesta ad allontanarsi? Capisci? Nessuno ha mai pensato se la tempesta abbia realmente voglia di arrivare, sa la pioggia voglia davvero cadere dal cielo, se il cielo voglia essere cielo e se la terra non sia stufa di farsi bagnare, capisci? Noi combattiamo l’assenza di alternative con l’assenza di realtà. Dove di colpo l’impensabile non solo è possibile, ma altamente probabile, capisci?».
«No, mai stato così lontano dal capire qualcosa», risposi sempre più confuso, parlava così velocemente che sarebbe stato difficile seguirlo anche se avesse detto cose sensate.
«Noi non vogliamo rispondere ai tiranni con metodi da tiranni, questo lo capisci? Noi volevamo rispondere alla tirannia della realtà con la fantasia, qualsiasi cosa sia. In un senso rigorosamente non retorico, è chiaro, no? Certo, forse abbiamo un po’ esagerato, però adesso tutti possono vivere nel mondo che vogliono, ma per fare questo era essenziale che ognuno entrasse in contatto con l’altro, ti torna? E che il mondo potesse essere plasmato rapidamente, no? Quindi abbiamo permesso alla parte più piccola di ogni persona, di ogni essere vivente o non vivente di prendere parte a questo progetto, quindi ognuno di noi può entrare in comunicazione con ogni elemento di ogni altra persona e di ogni altro oggetto, ok? Ok. Ma adesso basta, mi sono stufato di parlare se hai capito bene, se non hai capito non mi interessa, capito? E poi credo che sia il momento di andare».
La coppia stava sempre aspettando, i due figli correvano per tutta Plaza de la Encarnación, scomparendo qua e là dentro mura o arrampicandosi sul monumento per poi tuffarsi, senza uno schizzo, dentro l’asfalto.
«Andare?», chiesi mentre mi tornavano in mente quei tre poveracci che mi stavano aspettando dentro quella piccola casetta chissà dove. Mi sembrava passata una vita, mi domandai se mi avrebbero riconosciuto. Per un attimo l’idea di lasciare quella città mi sembrò insostenibile.
«Già, andare», ripeté iniziando a camminare.
«Un’ultima cosa», lo fermai. «Cosa sta succedendo fuori da Siviglia?».
«Bella domanda, e tu cosa ne pensi?».
Senza aspettare la risposta, si voltò e prese a camminare qualche passo avanti a noi. Se acceleravamo il passo lui accelerava il passo, se rallentavamo lui faceva lo stesso. Manteneva costante la distanza e, anche se sembrava che ascoltasse con attenzione qualsiasi cosa dicessimo, non si voltò mai. Così camminavo all’alba del mondo, seguendo un muratore svitato e parlottando del mondo che ci attendeva con una famiglia di messicani. Seguendo il flusso dell’asfalto, lasciando dietro di me molecole di libertà, mentre cemento e ferro si azzuffavano in una lotta amichevole sotto lo sguardo severo delle stelle, tra le nuvole addomesticate e nidi di uccelli con ali di vapore.
I nostri pensieri si perdevano nell’azzurro del cielo come iridescenti bolle di sapone, fino a raggiungere l’immensa palla di fuoco che illuminava la Torre de Oro e che splendeva sul Guadalquivir. Raggi di energia cosmica che giungevano a noi attraverso lo spazio, oggi come ieri, domani come oggi. Ecco cosa ci offriva l’universo, e per molti sembrava abbastanza.
Ritrovare la strada fu più semplice del previsto.

di Alessio Simoncini

Illustrazione in copertina di Andrea Stendardi


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