In fondo va così, prima uno e poi l’altro, poco a poco anche noi stavamo morendo tutti, perfino Martino, alla fine, se n’è andato, l’hanno affossato le sue stesse mani, a voglia di grattare sedie a sdraio su biglietti di carta colorati, come un cane che sotterra lo stronzetto del dopo pranzo scodinzolando sotto gli occhi del padrone, Lauretta alla fine la si è riusciti a sistemare e a darle un senso e una sistemazione vera e propria quantomeno il giorno del suo funerale, seppure con Silvia e Gaspare si è dovuti rimpinzare per due giorni di fila quella vecchia cassa di vecchie Fisherman’s per coprire l’odore della vecchia urina che l’ha accompagnata e amata instancabilmente per quarant’anni dall’ottantatré, Cisco poveretto si è ridotto a un brodino sotto alla mietitrebbia, c’era da coglierlo col cucchiaio o come si usa dire, Uccio continua a fare dentro fuori da Bancali come un bimbo un po’ toccato entra ed esce tutto il santo giorno dalla stessa porta, persino Melenzana è sparito, di punto in bianco, come una nuvolaglia, lasciandoci tutti a bocca aperta, quando ormai raggiunti i centosette anni si cominciava a dar per vero che non sarebbe mai più morto o in ogni caso non più di quanto già non fosse, e poi ancora Pio, proprio quell’anno, non so più neanche quanto tempo fa, quando ancora stava a casa di Palmira e si prendeva cura della sua cagnolina Sissi, in onore di una fantomatica donnicciola austriaca che si vantava d’aver sposato quella volta all’estero sotto le armi, nonostante leggere il suo nome legato al collo della cagna dentro una medaglietta certo non le rendeva giustizia, seppure nel muso di questa, Pio, sosteneva di riconoscere la bellezza imbastardita della defunta moglie, che diavolo avesse negli occhi lo sa solo Dio, perciò se ne prendeva cura con tutto se stesso e lo so non fa la sua bella figura dirlo ma la amava e l’accudiva come fosse davvero una donna, e che se anche urlava come strozzata da ossa di pollo perché non era capace di abbaiare come un qualunque altro cane, era in grado di camminare a una gamba alzata e a fare i bisogni nello stesso istante, cosa di cui sospetto lo stesso Pio aveva invidia. Perciò, per rispondere alla sua domanda, sì, non fu difficile per loro trovare casa. All’inizio pensavamo fossero qui solo di passaggio, come d’altro canto lo erano tutti prima di loro. Allora, mi pare, eravamo poco più di duecento, ma avremmo potuto essere anche venti e non si sarebbe notata alcuna differenza. La gente usciva davvero poco, tutti si rintanavano come larve nel bozzolo o una cosa simile, e per le strade, in piazza, ai tavolini, si incontravano sempre gli stessi soliti volti inebetiti da qualche cernia prematura e accartocciati tutti da una parte in una sorta di smorfietta arrogante dovuta al troppo fumare, con l’occhio schiacciato tra zigomo e fronte, risucchiato dall’aspirapolvere stretto stretto come l’ano di un cane. Un giorno riappariva a tradimento il nome di un morto e lo si riscopriva in piena salute, solo un po’ svampito, rintanato nell’ultima cameretta della propria casa, come tornato a darci il tormento, a gioire per la nostra vergogna, mentre un altro lo si aspettava per ore, il pomeriggio, sulla panca, quassù al belvedere, e lo si sarebbe potuto aspettare anche per il resto dei nostri giorni, ma avremmo fatto prima a chiudere mogli e figli in un bagaglio e andarlo a raggiungere noi in culo al mondo dove si era sistemato lui. Spesso, capita ancora oggi, si scopre di aver mancato un funerale quando ormai il chi-di-turno è stato dimenticato persino dai parenti. I nostri giovani, poi, si sono quasi estinti. Sono pochi e sono stanchi, dentro i bar non è facile distinguerli da noi vecchi. Silvia diceva sempre che il novecento era finito solo sul calendario e che il secolo avrebbe tardato ancora molti altri anni a chiudersi, che duemila o tremila che fosse, eravamo fermi sempre allo stesso punto. E forse sarà per questo che questi ragazzi vengono su a rilento, come stanchi o spaesati, appesantiti da tutti i problemi che un vecchio si accumula nel corso di tutta una vita, così impauriti e complessati già dal ciuccio, come seppelliti da un grosso sasso o dall’eco di un’epoca che dovrebbe essere passata ma che invece persiste bell’e testarda, e gli è dato lo spazio di crescere solo tra lo straccetto di terra in cui stanno sepolti e quell’angolino dove non è che la pietra tocchi proprio a terra, ma quasi. Come coricati dal rinculo del secolo, diciamo così. Devono abituarsi al ritmo. Anche l’odore è lo stesso. Odoriamo di campagna tutti allo stesso modo e a nessuno, mattina o sera che sia, manca un bel bicchiere da stringere tra le mani. Niente è come una birra l’estate, o l’inverno, o anche nel resto che rimane, dopo tutto. Siamo più russi di quelli con la bandiera di zio Stalin infascettata al braccio. Fatto sta, si capisce, il loro arrivo non passo inosservato. Era la novità del giorno e di ogni giorno a seguire, non si è parlato d’altro per lungo tempo.
Il bambino non sembrava neanche sardo. Piccolo era piccolo, certo, ma non era necessario avvicinarsi troppo per accorgersi che apparteneva ad un’altra razza. Un sardo lo si riconosce fin dal nome. Basta leggere l’elenco. Non c’è bisogno neanche di guardarlo in viso, né di aspettare che apra la bocca per storpiare quelle due parole che ha imparato in italiano. Parlo dei nostri, di sardi, sia chiaro, i sardi al centro del Nord, quelli a cui ancora è rimasto legato il profumo selvaggio dei cinghiali e della Sardegna come un campanaccio attaccato al collo. Ma in fondo, lo ha visto, bisogna ammettere che era un bel bambino, biondo e pulito. Le scarpe se le sapeva allacciare, mettiamola così. La donna, al contrario, era sicuramente dei nostri, nera che una pupilla e bella come il granito o il sole o il fieno di una collina.
Si sistemarono in quel tugurio in fondo al vicolo delle vedove, in Via Colombo, al settantatré. Quell’anno Palmira era andata a vivere fra le campagne col compagno, come lo chiamava lei, mi perdoni il gioco di parole. Si erano sistemati nella casa di lui, del compagno dico, anche se fa strano chiamarlo in questo modo se mettiamo in conto che insieme pesavano quasi duecento anni, non starò ad annoiarla con la diatriba che ci fu col prete, un tipo tutto dritto, uno di quei benedettini con la puzza sotto al naso, manco avesse un crocifisso nel retto per tenerlo in piedi, persino la comunione le negava, che conviveva e tifava per il papa senza vergogne, ma il Signore non è uno?, gli ha detto, dammi questo pezzo di pane, gli ha detto, Si vergogni e lasci quell’uomo, le ha risposto Don Piero, Ma tu sei tutto invertebrato! Io non devo lasciare proprio nessuno, gli fa Palmira, li doveva vedere, pareva di stare al pollaio. Ma sto divagando, questo non c’entra niente. Mi lasci continuare. Dicevo: fu proprio lei, Palmira, a darle in affitto la casa, quella dove stava Pio con la sua donna-cane. Se non fosse che la costruzione era parte di un lungo caseggiato già fuori moda quando hanno cominciato a costruirlo, si sarebbe potuto dire che la casa fosse come una capanna devastata dalla pioggia di fango e dalla tristezza di tutto il centro Sardegna messe insieme, mi creda, una tana di topi, spartana come un nuraghe disossato dai secoli. Almeno Palmira ebbe la decenza di far trovare alla donna tutto l’arredo necessario per vivere, seppure con poco, bell’e pronto e a sua disposizione, persino il frigorifero le aveva messo, non nuovo, ma lo aveva messo.
Per molto tempo di lei non si sapeva niente. Alcuni dicono venisse dal continente e che era venuta via per questioni finanziarie. Le pettegole del vicolo spettegolavano come cornacchie su un marito deceduto, a inizio settimana, e che tramutava poi in cornuto o cornificatore, vivo e vegeto, la domenica stessa, rintanato in una villina all’estero o in una pensione o sul lastrico, concordando il giudizio all’unanimità col Franchino il salumiere e le comari, in base al clima e agli oracoli, le estrazioni del Lotto. Altri, più giovani e meno creativi, sostenevano fosse una delle inesauribili nipoti di Palmira, una di quelle che vive sulla costa o di quelle altre che abitano all’Inglishterra. A me, personalmente, non importava, devo essere sincero. Ero interessato solo alle mie passeggiatine e a risparmiar le forze che la sera mi avrebbero condotto quassù al belvedere, per stare un poco al sole e godere della freschezza nuragica che ci tira in certi periodi dell’anno. Eppure, Dio santissimo, non si parlava d’altro, durante quel periodo, e non mancava giorno che un nuovo dettaglio venisse alla luce, per amor delle pettegole, e che venisse snocciolato al foro dalla meticolosa ricerca del vero ad opera delle nostre cerusiche di fiducia, quelle gallinacce, e il popolo assisteva alle assemblee sempre più stupito dall’antica saggezza conferita alle nostre donne dal Lutto in persona come per qualche segreto che questo aveva scelto di condividere solo con loro, e a fine giornata, tutti, stia pur certo, nessuno escluso, tornavano di corsa a casa per riportare le notizie apprese in piazza dai tribuni. Solitamente, però, questa sorta di prezioso reperto archeologico veniva rimaneggiato per l’intera giornata fino a sciuparlo e a renderlo a uno straccetto, tutto sciupato e appiccicaticcio, alla fine ne restava solo un pugnetto di sabbia. Tuttavia, dopo i primi mesi, sembrarono tutti d’accordo nel dire che la donna, come molte, aveva avuto un uomo nella sua vita, e come molte altre, lo aveva perduto. Che vuole farci?, è la vita.
Chi era riuscito a parlarle la diceva una paranoica, aveva sempre paura di non si sa bene cosa, parlava come una piena di demoni fino ai capelli, dava fiato a frasi prive di senso, diceva qualcosa come me ne vado, meglio mi butto giù da un ponte col bambino o mi lancio sugli scogli piuttosto che fargli mettere di nuovo le manacce sopra, quant’è vero Dio. Ma non si allarmi, non credo lo avrebbe mai fatto, son quelle cose che si dicono, sa?, per tradizione. Per farne un dramma. Silvia lo diceva sempre, glielo ho detto, è gente piena di complessi, esagerata, che ha paura di tutto, sempre a fuggire e fuggire, cercano disperatamente una via di fuga o un sentiero in mezzo al bosco senza la bussola e senza la luce, tutti nel buio come talpe, senza neanche sapere da cos’è che stanno scappando, sono finiti in mezzo a un secolo che non è il loro, stiamo ancora cercando di sbrogliarci le nostre faccende, di pagare gli arretrati, ci serviva più tempo, funziona così, quando non riesci a completare il lavoro o te lo porti a casa o ti ritrovi un mucchio di scartoffie accumulate il giorno dopo, mischiate a quelle nuove, a quelle che avresti dovuto prendere in mano a mente fresca; il secolo era troppo breve, serviva più tempo per chiudere tutto.
In realtà c’è ben poco altro da dire. Piuttosto, son molte le questioni su cui si può fare un’ipotesi, ma ogni conclusione risulta sempre inconcludente e precipitosa, lo saprà meglio di me. È sempre azzardato affermare quella cosa di più, tentare di aggiungere qualcosa che faccia vedere tutto sotto una nuova luce, sotto un nuovo aspetto, qualcosa che cambi le carte in tavola, ecco, quante volte abbiamo provato a farlo, mi creda. Eppure, alla fine, se la si tace, la storia sembrerà incompleta, incoerente, impossibile.
Il fatto è, (mi ascolti), il fatto è che la nostra gente vive senza mai arrivare a poter dire di aver avuto una storia. Il nostro è un piccolo paese. (Guardi qua!) La storia del nostro vicino di casa ha ben poco a che fare con l’uomo o la donna da cui la casa è abitata. Si tratta per lo più di chiacchiere riguardo particolari di secondo ordine. Le nostre vite sono un raccontino o una nota a piè di pagina, percepite da un qualcuno seduto al tavolo di un bar in fondo alla sala. Sono mezze parole, mezze frasi, tutte interrotte come alla radio e ricucite insieme alla bell’e meglio per come le si è percepite. Si può dire che più che una storia, un qualsiasi abitante del nostro paesino, abbia giusto una lista di cosa da fare e da comprare prima di poter sostenere di aver vissuto e lasciarsi così morire. Una lista della spesa. E tale è la storia di questa donna e del suo bambino. In fondo, solo un itinerario.
Era arrivata senza un nome e senza un passato e nessuno di noi avevo fatto domande al riguardo, e se anche le avessimo fatte, la donna, probabilmente, (se aveva un po’ di cervello), ci avrebbe mentito. Tirava su il figliolo come gli era possibile. Sola. Allora, se la memoria ancora tiene, il bimbo aveva sì e no tre anni. Le storie dicono che la memoria cominci proprio a quell’età, e se al bimbo è stata mandata un po’ di fortuna, non ricorderà mai di esser passato qui una sola volta, tra le nostre strade. Credo la madre si guadagnasse da vivere lavoricchiando qua e là il tanto di riuscire a portare da mangiare al figliolo. Mi pare pulisse le strade per conto del comune o lavasse la scala di qualche vecchia casa, o entrambi, o nessuno dei due. Non lo so. Col tempo, si può dire così, aveva stretto amicizia con la vecchia Silvia, un donnone grosso come le pentole per cuocere le fave e il lardo o uno di quei dolmen o monoliti che sono sparsi per la nostra terra. La chiamavano “l’angelo di Via Colombo”, per non usare la parola “proprietaria”, molto più adeguata ma molto meno amichevole. Lei fu proprio una delle prime a cui espresse le sue paure, di quest’orco o mostro o ombra o Dio sa cosa, che la perseguitava e che vedeva in ogni angolo delle strade, seduto in ogni macchina, rinchiuso in ogni specchio. Silvia le teneva il bambino qualche ora per conto della donna quando questa andava a lavorare; mi pare Silvia fosse andata in pensione se non quell’anno, certamente quello prima, comunque da poco. In giro, la verità, non si faceva vedere molto. La donna, dico. Non la vedevi mai nella piazza, né seduta a riposare su una panca all’ombra dei nostri alberi sardi; credo, inoltre, fosse una delle poche che ancora si trascinavano sul ciottolato i bidoni pieni d’acqua raccolta alla fontana lungo tutto lo stretto di Colombo, a piedi, manco in bicicletta. Parenti giù al campo non ne aveva, perciò, certo, non la si poteva incontrare al cimitero o da Gasparetto a comprare fiori.
Dicono, mi spiace dirlo, che fosse una disgraziata. E come tale, molti non la avvicinavano, impauriti dal malaugurio. Si dice che il figlio di Sebastiano le facesse il filo, il quale pensai potesse dare solo del bene a quella ragazza, così che, almeno, avrebbe potuto trovare un attimo di pace, cambiare aria, magari avere due spiccioli in più per prendere un dolcetto giù da Isa e far contento quel bambino. Lo guardavo dai buchi delle tapparelle correre sgraziato in tondo per la via. Così piccolo, così solo. Con due babbucce rotte ai piedi, e però sorridente, come quello del film della bicicletta, quello, aiutami, come si chiama? Lasciamo perdere.
Dicevano che col figlio di Sebastiano si fossero incontrati direttamente in casa sua. È una vecchia casa quella che Palmira le diede in affitto, e aveva il portone che non chiudeva bene o che non chiudeva affatto, dice che per chiuderlo l’unico modo era mettere la cassettiera della parete d’ingresso di traverso, così che bloccasse la porta. Silvia le fece avere il numero di Sebastiano, ma alla fine dovette chiamarlo lei per conto della donna. Bastiano, voglio dire, non ha colpe. Suo figlio non è che fosse proprio un perito. Gli si dava del fabbro, sì, ma più per scherzare che per altro, e poi, forse, quella, era la prima serratura che si ritrovò a toccare oltre quella di casa sua. Sicché, non aggiustò proprio nulla, minchione com’era, ma di buono ne venne che per un po’ ebbe cura della donna.
Passò del tempo, molto tempo. Ignoro quanto. Ancora non era arrivato il periodo delle nostre feste, perciò poteva essere primavera o autunno o pieno inverno. Di lei non si parlava più come prima. Poco a poco era diventata anche lei un fantasma come noi altri. Come noi altri, al pari di un arredo di questa grande casa che è il paese o un ciottolo della strada. Chi aveva avuto occasione di conoscerla, chi era riuscito a scambiar due battute o solo a udirne la voce, disse di averla trovata un po’ svampita o un po’ più svampita del solito. Magrissima. Dicono non uscisse per timore di cose che solo lei poteva vedere o capire. Ma questo non è possibile. È solo una chiacchiera. Io stesso la vidi una mattina lasciare il piccolo da Silvia e andare sotto il sole per la strada. Fu Silvia stessa a dirmi che la donna si era finalmente decisa a consegnare il bimbo alle suore, iscrivendolo all’asilo. Disse che era bene che il bambino cominciasse a farsi qualche amicizia, con la speranza, forse, di trovare qualche altra mamma con cui parlare e passare del tempo lei stessa. Una donna più vicino alla sua età, insomma, una donna non prossima al loculo come lo erano le vedove del vicolo, che non sono mai andate più lontano di via Colombo in quanto a conversazioni. Per lei certo non doveva essere facile tirare su il bambino solo con le proprie forze, né doveva esserlo separarsi da lui. Disse Silvia che la donna era riuscita a trovare un impiego al mercato, con il quale avrebbe potuto avere un guadagno non dico discreto, ma quanto meno tale che avrebbe potuto condurre una vita leggermente meno mediocre di quella che fino ad ora aveva vissuto. Una vita tristissima, diceva Silvia, penosa, e lo diceva con una voce penosamente triste, ma non rivelò mai il motivo né a me né a nessuno, e se lo portò con sé nella tomba qualche anno più tardi. Come una vera donna sarda, diceva Gaspare. Diceva Silvia che era una donna che si era fatta da sola, che ne aveva passato tante e tante ancora, probabilmente, ne avrebbe dovuto passare, era però una tipa forte e orgogliosa di aver tirato su il bambino fino all’ultimo senza chiedere mai aiuto a nessuno e contando solo sulle proprie forze. Per una volta si sentiva davvero in pace, come non avesse più bisogno di fuggire. Il figlio di Sebastiano le rimase sempre accanto. Dicono che seppure le ronzasse sempre intorno, lei non gli si concedette mai e forse, dicono, sarebbe stata proprio quella la volta: dice il padre che era dovuto uscire di corsa per andare da lei e che proprio lei gli avesse chiesto di andare, lui si era fiondato fuori dalla porta come un cinghialetto che attraversa la statale in mezzo alla confusione e ai gas delle macchine, pronto a tutto, e si portò dietro un giocattolino che aveva preso per il bimbo, una stupidaggine, diceva, che gli avrebbe fatto sicuramente piacere, e rimase a cena da lei e si trattenne anche una volta finito di mangiare, dice aveva chiamato casa per avvertire che avrebbe fatto tardi o che proprio non sarebbe rientrato affatto, e che avrebbe aspettato un altro poco per dare il gioco a quel bambino, poi, lei lo sa meglio di me, ma a me piace raccontarla a un altro modo: io credo sia uscito, se non proprio in quell’istante, subito dopo aver messo giù la cornetta, e immagino il bimbo non abbia neanche visto il regalo perché era ancora tutto impacchettato, e immagino che proprio in quel momento la donna abbia visto il bambino sbadigliare, pronto ad addormentarsi sopra il tavolo, e che lo abbia preso in braccio, voltandosi a guardare il figlio di Bastiano per dirgli Glielo daremo domani, ma tu non andare, vorrei ti fermassi qui per questa sera, e che, dopo aver detto queste semplici parole, abbia risalito le scale, con la piccola testa profumata del bambino poggiata alla sua spalla e il figlio Bastiano col regalo in mano fermo all’ingresso, con un po’ della luce di cucina sulla faccia, come si vede al cinema, mentre la donna continua a salire reggendosi al corrimano pieno di rose di ferro, uno scalino dopo l’altro, fino a sparire dietro il muro, e che dopo aver camminato lungo il corridoio spento, arrivata alla stanza del bambino, abbia aperto la porta della camera e riposto il bimbo nella culla, ancora sveglio o di nuovo sveglio per vedere la sua mamma, un sorriso, un saluto, prima di chiuderlo dentro per tenerlo al sicuro, di riporre la chiave nel solito nascondiglio e di tornare giù. Se davvero la memoria comincia a formarsi in quell’età, nei bambini, mi piace pensare che il suo primo ricordo sia l’odore della culla, il bianco del lenzuolo, il tepore del lettino, la stoffa, e quelle due cosine al termine delle gambe con cui lo vedo giocare, nei miei pensieri, piccole e rosa, cercando di afferrare con le mani le dita dei suoi piedi, e di sentirne il profumo della pelle e osservarne ogni riga tracciata sulla pianta, e di riderne, divertito, come per una cosa buffa di cui non si era mai reso conto di avere, e di ridere così forte da non sentire nient’altro, solo la gioia inattesa per quei due piedini, sembra stupido, lo so bene, eppure io lo sento ridere così forte, così felice, da non accorgersi né delle grida, né dei colpi, né dell’immediato silenzio che travolse la casa, ma solo di riempirsi del suo ridere e di avere memoria di questa scoperta come di un ricordo innocente, felice e attonito durante quella notte violenta in cui la porta era rimasta aperta.
di Fidel Mereu
Illustrazione in copertina di Andrea Innocenti
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