Un bussare che è la naturale firma dei gendarmi mi strattona fuori dal sonno. Di quelli per nulla riposanti, gonfio d’incubi. Pugni forsennati fanno tremare i cardini. La porta si spalanca appena levo la catenella e tre gendarmi si riversano in salotto. Qualche istante per rimettere a fuoco e calmare la paura d’essere arrestato. Non vorrei dargli altri motivi per trattenersi. Mi avvertono che il capitano ha chiesto del mio violino.
È lei il violinista?
Certo.
Il capitano vuole che prepari qualcosa per l’alba. E che si vesta di nero. Cosa vorrebbe suonassi?
Qualcosa che prepari alla morte. Parole del capitano. Sa di cosa si tratta.
Posso immaginarlo.
Parla l’ufficiale più anziano, alla testa di due alfieri poco più che sbarbati. Rialza la visiera con l’unghia per scoprire gli occhi d’un toro condannato alle tenebre eterne. Mi chiedono se mi è stato già chiesto. Fin troppe volte, direi, se non bastasse un cenno del capo. Sono solo le due, ho un paio d’ore per frugare tra gli spartiti alla ricerca di qualcosa d’appropriato.
La taverna ha aperto prima dell’alba; forse, non ha mai chiuso.
La carrozza rococò del Vescovo sosta sul sagrato della chiesa di Sant’Antonino di Apamea. Dal russare del cocchiere, dev’essere vuota. I sei destrieri al tiro nitriscono e sbuffano dalle narici lunghe volute di fastidio, digrignano i denti, lamentano decine di supplizi acuiti dall’immobilità.
Non è stata scelta la cattedrale gotica di Plaza mayor, ma la decrepita chiesa visigota paleocristiana, più volte distrutta e ricostruita, a fare da scenografia per il modesto patibolo allestito al centro di piazzetta Manrique de Lara, sulla quale s’affaccia il sagrato.
Il patibolo sorge nel suo esatto centro; poco più di un altare rialzato da quattro scalini di legno, non più largo di due metri, con una sedia disposta al centro. Molte delle imposte sono già spalancate, le altre s’aprono in ordinata successione. Le case si svuotano dell’aria esausta della notte, il leggero effluvio di fogna che s’espande nelle strade laterali, dalle strade risale il fetore dei vasi vuotati nei tombini e nelle canaline ai lati della strada, marchio olfattivo in coda ad ogni aurora. Attendo il capitano per almeno un’ora, gli spartiti in una mano e la custodia nell’altra. È lei, violinista?, domanda una voce rauca alle mie spalle. Il capitano ha la carnagione dei mori, gli occhi chiari e un aspetto garbato ma logoro, consumato, il collo lungo e assottigliato. Deambula a gambe larghe, quasi ci tenga a sembrare quanto più anziano e navigato non sia. Ha l’incedere scomposto di chi conosce tanto la morte da poterne disporre a piacimento. Non s’aspetta quasi mai una risposta alle domande a meno che non la pretenda in anticipo, come i bambini rabbiosi che non capiscono il meccanismo dei per favore e dubita dell’intrinseco animo sedizioso dei punti di domanda.
Ha pensato cosa suonare a questi quattro anarchici disertori per accompagnarli al Creatore!?
Ho delle idee, signor capitano. Mi piacerebbe parlarne con voi.
Cosa le ha chiesto di suonare il mio predecessore?
La marcia di Radetzky.
Oh, Madre Santissima! Gli austriaci, ci mancano solo loro. Non c’è proprio niente di trionfale in quello che hanno fatto questi uomini. Codardi, negligenti, miserabili anarchici. Infidi marrani! Vuole sapere perché hanno disertato, immagino. Certo che vuole, è un idealista, come tutti gli artisti, il capitano inaugura la sua filippica.
Sarebbero dovuti partire per L’Avana, per rimpolpare la guarnigione di Santa Clara, decimata dalla malaria dopo una lunga missione di pacificazione nella Sierra Maestra, ma non hanno visto l’ombra d’un ribelle, oltre alla loro, s’intende. Per il tifo. Niente di più che un’epidemia di tifo all’ospedale della marina reale di Cadice, dov’erano di stanza. Temevano che i Legionari di San Benedetto d’Avis portassero delle strane febbri africane. Per una febbre, porca miseria! Vale davvero la pena di tradire i propri confratelli d’armi per una febbre!? Hanno più paura della scarlattina che della guerra. Una febbre vale il proprio collo!?
L’invettiva non richiede repliche, dall’ondeggiare indeciso dei suoi occhi e dei suoi gesti è chiaro che non si stia neppure rivolgendo a me, ma al mondo intero. Se mi conoscesse, vedrebbe facilmente tradito, violato e profanato tutto il suo corredo d’inossidabili virtù morali. Il capitano tossisce, sputa sangue sul fazzoletto con ricamata una croce ancorata, insudiciato da strati rappresi colore argilla. Il vigore della sentenza gli scuote le membra, infuoca i polmoni. Solo quando il sole è del tutto sorto noto gli sfregi del vaiolo che gli risalgono il collo, il marchio di chi le guerre le combatte davvero. Il capitano nota il mio timido retrocedere, un passo indietro di pochi centimetri, ostacolati dalla reverenza e dal timore dell’offesa. Lui s’acciglia per un attimo, ma sceglie di sorvolare, accenna una smorfia che dovrebbe essere un misto di irritazione e benevolenza. Attraversa la piazza e torna al suo alloggio senza proferir parola. Le doppie imposte del balcone sbattono sul muro con tanta forza da far staccare brandelli di calcinacci dalla facciata decrepita dell’edificio, vecchia sede del comune prima che venisse epurato dai carlisti nell’ultima insurrezione. Il capitano spunta sul balconcino. Sono solo al centro della piazza ancora oscurata dagli edifici. Si sente più sicuro, se le parlo da quassù?
Il capitano mi dileggia, mostra quello che dovrebbe essere un sorriso, compiaciuto dalla sua medesima saggezza, maturata in cinquant’anni di assoluto monopolio sull’uso legittimo della forza fisica. Una quantità di tempo e di eventi che peserebbe sulle spalle d’un uomo normale almeno il doppio, così piace credere a quelli della sua pasta. La gente, oggi non va nemmeno più in chiesa e ha il terrore delle malattie. Mio Signore benedetto!, – trangugia un lauto sorso di brandy per riscaldare la voce. – Chi non segue il verbo dei Vangeli, come può pensare di sfuggire alle loro punizioni?
Taccio, non scopro il fianco alle lance del catechismo e della fede. Constata la mia difficoltà, si gode il mio inerte silenzio dall’alto.
Dunque, cosa pensava di suonare? Che ne direbbe di un bel melodramma italiano, magari Metastasio, – continua da solo, come ci si aspetta dai grandi oratori.
Non ricordo la partitura per violino, sono composizioni per orchestra, temo che non renderebbero altrettanto con un solo strumento, – sputo fra i denti. – Forse sarebbe meglio un’esecuzione in un unico movimento. Una sola voce.
Bene, violinista! Dunque, cosa propone!?
Tende il braccio dietro la schiena e stringe la bottiglia che gli porge l’attendente senza voltarsi.
Che ne dite di un bel madrigale, che ricordi a tutti i bei tempi del Venerabile Torquemada. Pensavo, se posso permettermi, alla Missa de beata Vergine di quel tale fiammingo dal nome spagnolo, – la voce s’accende del desiderio di stupirmi, e quasi ci riesce.
Josquin Des Prés, signor capitano!
Il capitano non ha idea di quale differenza vi sia tra una caccia e una ballata, come tra un salterio, una cetra e un’arpa. Ma non si deve mai peccare di presunzione davanti a un primate in abiti militari.
Se me lo permettete, signor capitano, io pensavo a qualcosa di più, come dire, vitale, ecco!
Prego?
Vitale, capitano! – replico qualche tono più su, ugualmente senza convinzione.
Vitale!? E perché mai!? Vengono per crepare, solo lei vivrà per ricordarselo.
Vede, signor capitano, io non ho idea di quale accompagnamento si sposi a un uomo che s’avvicina alla morte. Posso solo chiedermi cosa vorrei sentire io, se il patibolo fosse qui per me.
Chissà mai che non accolga presto anche il suo sedere! – Starnazza un ubriacone dal portico della locanda. Il capitano stira un ghigno divertito, accarezza l’etere con la mano per richiamare al silenzio.
E dunque, di nuovo, che diamine vorrebbe suonare!? – ringhia lui. La mia titubanza non lo diverte più.
Magari una follia, signor capitano. Un andante, forse. Qualcosa che non anticipi il momento privandoli dei loro ultimi istanti.
Oh, no, affatto! Non oserei mai, anzi, tengo non poco a godermene ogni secondo. Benché, personalmente, preferirei lasciare che se li prenda il tifo, il comando della brigata ha fretta di liberarsene, la corte marziale ha disposto vive raccomandazioni perché gli venisse somministrata la morte nel modo più umano possibile. Sua Maestà vorrebbe evitare altri cannoneggiamenti di piazza come successo in Catalogna. Fosse dipeso da me, li chiuderei in un sacco e li getterei nell’Ebro come faceva mio nonno. Ma i tempi cambiano, e i giornali liberali aumentano le tirature. Invocano pietà, morti più umane, qualunque cosa significhi. Quella morte più umana, è lei, violinista.
La gabbia è montata su un carro, dentro tre prigionieri vestiti con una tunica sudicia e lisa, il capirote in testa, floscio, con due grandi orecchie che gli incorniciano il volto e discendono sulle spalle e un foro all’altezza degli occhi. Il carro procede indolente sul ciottolato che porta all’arco d’ingresso della piazza, due tamburini lo scortano ai lati. Poco più indietro, il quarto prigioniero viene trascinato da un drappello di dragoni col vessillo della diocesi. Polsi incatenati al bacino, morsa di ferro sulla gola a cui è assicurata la gabbia arrugginita, simile a quelle in cui si rinchiudono i pappagalli, che gli inscatola la testa: emblema d’una morte più che meritata. Incespica nella pesante catena attaccata alla sella dei dragoni, lo ritirano in piedi con uno strattone. Il cammino di tutti i criminali porta sempre alla garrota, sento dire bofonchiare.
Il gabbione dei condannati si ferma a pochi passi dall’arco d’ingresso della piazza, lungo le navate laterali della chiesa, appena prima del transetto.
Due chierici spalancano il portale, le trombe annunciano l’ingresso di Sua Eminenza. È il segretario dell’arcivescovo a fare da vicario, con tutti i paramenti: dalmatica, porpora, mitra e mantello, con tante pietre e oro, cordini e orpelli e monogrammi di Costantino addosso da trasformare in castelli tutti i lebbrosari d’India.
Il vicario di Dio in piazza si leva i guanti viola e raccoglie il rotolo dal prete inginocchiato. Il capitano, fazzoletto alla bocca, alamari abbottonati e bavero alzato per nascondere l’esantema, prende posto accanto all’autorità temporale.
Nomi, luoghi e date di nascita, qualora possibile, e la lunga sfilza d’accuse religiose prima dei loro ignominiosi delitti civili.
Uno dei condannati s’aggrappa alla gabbia come una fiera, sbraita qualcosa in una lingua impronunciabile che non riesco a riconoscere. Un indio mezzosangue, che solo ora conosce la patria di cui è suddito.
A questo barbaro latrante, neppure la fatica d’imparare la sua lingua, ancor oggi, prossimo al giudizio di Dio, grugnisce nel suo barbaro idioma!, sentenzia il vicario dal sagrato: l’ouverture ha inizio.
Marrani, moriscos, convertiti. Questi sozzi eretici e apostati giudaizzanti si sono vilmente serviti dei loro privilegi per abbandonare i loro commilitoni.
Non siamo tutti ebrei! – grida qualcuno dalla gabbia. Il calcio del fucile colpisce le sbarre e le dita che le stringono, il silenzio della piazza disturbato da sommessi lamenti.
La scomunica potrebbe occupare l’intera mattinata, ma il capitano non ha tanto tempo da perdere.
Non riesce a completare l’elenco delle condanne senza interrompersi per tossire e ricacciare nell’esofago grumi di sangue nerastro. Anche lui scomoda il Signore facendo storcere il naso prominente del suo primo vicario alla sua sinistra.
Lettera denigratoria, diserzione, grave inadempienza e negligenza verso i doveri militari, recidivi furti con destrezza delle offerte nelle chiese in cui avevano trovato ostello, e decine d’altri capi ancor più articolati.
Violinista, salga!
Obbedisco, mi posiziono accanto alla garrota con in braccio solo il mio violino e indosso l’abito scuro che mi si è raccomandato. Uno ad uno, in catene, inciampano nei gradini e vengono messi a sedere sul pesante trono ligneo. La struttura beccheggia sotto il nostro peso, rendendo più arduo il mio compito.
Il capitano sguaina la sciabola da ussaro e la issa verso l’alto, mi sforzo di non guardare mentre scarica il fendente nel vuoto.
Il boia incappucciato agguanta i ferri incrociati dietro lo schienale, ruota la valvola che stringe il morsetto arrugginito attorno al collo, avvita al contempo il perno nella carne all’altezza della prima vertebra. Non c’è molta gente ad assistere in piazza, ma i posti in piccionaia sono esauriti e i bambini litigano per un posto alla finestra. Nessuno sembra ascoltare le note pescate a memoria della Quinta Recercada.
Riconosco il converso dagli occhi attraverso l’inferriata che gli inscatola la testa. A lui è rivolta l’accusa del sangue. Sedici bambini cattolici morti di scarlattina nella scuola benedettina in cui aveva cercato e ottenuto ristoro. Ebreo spagnolo, nato a Lovanio, traduttore della sua divisione nel Tercio, già in forza presso l’ambasciata del Regno nell’Impero germanico, a Colonia, è un vile ed empio traditore e molto altro, ruggisce il capitano. Ho saputo, che prima d’arruolarsi era insegnante di musica, quando ancora era ebreo.
Le mie dita si muovono da sole sulla paletta, potrei continuare fino all’ottava, con qualche variante sul tempo, acuire l’enfasi dimezzando la velocità, ma sopprimo ogni iniziativa personale. Mentre l’ebreo inutilmente convertito viene sorretto sui gradini, mi sovviene l’immagine di un pentagramma nitidamente completo, che mai avrei pensato d’aver impresso nella memoria. E credo che in qualsiasi altra circostanza non sarei stato in grado di riprodurre una sola nota. Mosso dalla consolatoria certezza che solo lui le possa cogliere; solo a lui sono dirette. Tento di rimuovere la polvere depositata sul concerto per violino di Felix Mendelssohn, il Beethoven degli ebrei d’Europa. Questo, potrei chiedere ad un’ingrata sorte, se fossi lui, se avessi un dio, una fede da pagare con la vita. Siede sulla sedia di morte mentre introduco il primo movimento. M’auguro che possa accorgersene, che non siano nuove al suo orecchio. Solo lui, nella piazza, coglie il mio omaggio, mi strizza l’occhio destro con rapidità, identifica l’interludio, un rapidissimo cenno che avrebbe la forma d’un grazie, in un mondo diverso. Solo a lui, un morto al quale non oso rivolgere più d’uno sguardo, destino il mio requiem. E gli scappa un mezzo sorriso, quasi avesse ancora il cuore di ringraziare il saltimbanco del boia, per questo misero regalo.
di Giacomo Cavaliere
Giacomo Cavaliere è nato a Torino il 16 luglio 1995 ed è studente della facoltà di Storia presso l’Università Statale di Milano. In passato si è occupato di esposizioni collettive e personali d’arte contemporanea. Alcuni racconti sono apparsi su l’inquieto, Bomarscé, Malgrado le mosche e Sulla quarta corda. È editor di Light Magazine e membro della redazione di Frammenti-Rivista.
Illustrazione in copertina di Andrea Stendardi
Altra roba che potrebbe interessarti:
Borges Giacomo Cavaliere La sporca favola della morte e dell'occhio Narrazioni racconti Racconto Rivista Waste