Io e mia madre arrivammo alla galleria che le budella mi stavano ricattando già da un’ora. Continuavo a ripeterle che sarei scesa dalla macchina srotolandomi sull’asfalto in una manovra alla zero zero sette, se non si fosse fermata da qualche parte.
«Io in quei postacci non ci vado. La carne non è neanche carne.»
«Puoi anche rimanere in macchina. Prendo un panino per me e torno.»
«Ma ho prenotato dal Tesoriere!»
La Mercedes svoltò a destra oltrepassando il casello.
«Non capisco perché papà vuole che vada a vivere fuori città.»
«Quando hai fame non capisci un sacco di cose.»
E aveva ragione. Quella mattina aveva dovuto piombarmi in camera per svegliarmi e, dato che mi erano rimasti solo quattro minuti per preparami, avevo consapevolmente ignorato la colazione, infilato il paio di leggins più vicini al letto e un’enorme felpa su cui la mia amica Alice aveva fatto imprimere il faccione strafatto di coca di Britney Spears. Inoltre, la tinta carnevalesca della sera prima si era sciolta durante la notte imbrattandomi viso, collo e schiena, per cui ora assomigliavo a una strana combinazione di My Little Pony a cui è stata data della metanfetamina per farli volare. Più tardi, grazie a un’accurata documentazione fotografica, avrei scoperto che qualcuno se n’era andato in giro per il casale a smerciare figurine porno delle Winx e che qualcun altro, sempre che non si trattasse della stessa persona, aveva scambiato il mio corpo nudo e appiccicoso per un album da riempire. Non troppo tempo dopo venni a conoscenza del motivo per cui il mio corpo era nudo e appiccicoso: i rave al casale sono pieni di questi tizi che si credono gli eredi di Charles Manson ma non sono altro che i germogli di una ramificazione sociale terrorizzata dal petrolio e dall’olio di palma e che se ne vanno a zonzo suonando bonghi improvvisati, con i loro capelli ricci spettinati e le tasche degli harem pieni di bacche di goji. Ad ogni modo, ci siamo sbrodati un cartone tutti insieme e poi abbiamo fatto un rito di purificazione nella foresta adiacente, utilizzando la resina dei pini come unguento per le nostre anime. Ricordo ancora adesso, seppur vagamente, la sensazione di benessere caldo e umido di quell’arbusto così grosso e possente. Mentre le parole del messaggio di Alice scorrevano sotto i miei occhi, le mie labbra mi rimembravano il sapore linfatico del vecchio tronco con cui quella sera avrei fatto sesso.
«Siamo quasi arrivate.» La voce spinosa di mia madre aspirò via la mia attenzione dal tutt’uno con la natura riportandola sul triste asfalto della tangenziale. Prendemmo la prima uscita verso il mare e proseguimmo sulla stessa direzione per una decina di minuti. Le colline si allontanavano esibendosi in una danza di rapidissime curve nello specchietto retrovisore. «Col treno ci metterai meno, vedrai.» Un sole pallido illuminava il suo volto gessato. «Che hai combinato ieri sera?»
«Pigiama party.»
«Chi c’era?»
«Le solite.»
«Divertita?»
«Sì.» Una nuvola si frappose tra il sole e la sua faccia, ombrandola di grigio. Era la verità. Mia madre sapeva che le mie serate avevano smesso di essere dei pigiama party dalla fine delle medie, ma se il suo esserne cosciente fosse stato palese, avrebbe dovuto prendere misure estremamente punitive sia nei miei che nei suoi confronti.
«I tuoi amici saranno entusiasti della galleria.»
Lei non accetta di poter sbagliare. Sguazza arrogantemente nella convinzione di essere infallibile, come il trucco dietro cui si mimetizza e, di conseguenza, di dover non solo soddisfare ma persino superare le aspettative altrui. E poiché la mia vita si era trasformata in un gigantesco errore, la punizione che avrebbe dovuto infliggere a se stessa sarebbe stata pari alla negligenza con cui mi aveva cresciuto. Secondo i suoi sballati canoni etici, la morte poteva essere sufficiente. Ma Matilde non aveva nessuna intenzione di finire nella cappella di famiglia a soli cinquantaquattro anni, gonfia e livida come zia Iside, perciò preferiva relegare il nostro rapporto alla finzione. Io mentivo e lei fingeva di non sapere che stessi mentendo.
Finalmente parcheggiammo in un enorme piazzale coperto alla stregua di un tunnel sotterraneo. Le orrende colonne portanti di cemento armato mi fecero venire in mente lo scheletro nudo e fatiscente del casale e quanto i mondi da cui entravo e uscivo fossero diversi. Trascinai le mie Super-High Buffalo leopardate fino all’ascensore al centro del parcheggio.
«Spero ci sia il rinfresco.»
«Improbabile, non è mica un’inaugurazione.»
«Fanculo!»
«Lisa! Ti prego di non usare certe espressioni davanti alla proprietaria.»
«Perché? È come te?»
A quel punto una sfumatura rossiccia si fece coraggio ed emerse scavalcando il pallore waterproof che quella mattina aveva costruito con tanta acribia, in seguito ai trenta minuti di ginnastica facciale e ai quaranta di yoga pelvico. Ma con la stessa rapidità con cui era apparso, quel colorito a lei così estraneo si dissolse in un’espressione di vacua sobrietà. Come se nella sua testa non ci fosse nient’altro che la sequenza di gesti e parole che avrebbe adoperato per presentarsi a Madame Grouviert, la titolare della GAAS (Galleria di Arte Audiovisiva Sperimentale). Cioè, l’ex titolare della GAAS, dato che ormai era mia. Da quando mio padre si era impuntato di volerla acquistare, non c’erano stati troppi dubbi su chi si sarebbe aggiudicato la vendita, considerato che la concorrenza consisteva in: un ricco avvocato divorzista senza arte né parte; un vecchio cardinale di nobili origini; la conduttrice dei programmi televisivi Mamme all’antica, Amore&Cucina e Dammene ancora!
Ad ogni modo, mio padre si era assicurato che la Grouviert ricevesse la mia opera magna – Solitudine di un foglio accartocciato, un cortometraggio di otto minuti in cui dieci corpi nudi si aggrovigliano tra loro dando origine a un’aberrante massa di caos e profanazione – insieme a un cesto di marmellate di frutta proveniente dai nostri orti. Un paio di giorni dopo la consegna ci furono recapitate due lettere dai bordi ricamati in oro: la prima, destinata a mio padre, conteneva i termini del contratto da firmare e rispedire; la seconda era per me e riportava un invito a incontrare Madame Laurette Grouviert presso la mia futura dimora. Fu così che venni a sapere della GAAS. All’inizio doveva essere una sorpresa per il diploma.
Le porte dell’ascensore si aprirono su un corridoio di vetri trasparenti a tre piani da terra. Alla nostra destra, una moltitudine di colline si intrecciavano l’una con l’altra per poi dissolversi, a sinistra, in un’unica distesa pianeggiante baciata dal mare. In mezzo a quella visione estatica si ergeva l’edificio che per anni aveva ospitato la galleria. Proprio come l’arte al suo interno, anche la struttura architettonica presentava volutamente delle irregolarità che ne compromettevano l’armonia, simili a cicatrici su un corpo di marmo: le pareti alternavano tratti concavi ad altri convessi generando onde di granito, mentre le finestre, giganti fessure scavate direttamente nella pietra, restituivano all’insieme le sembianze di una faccia deforme. A riceverci fu una voce eccessivamente melodica, accompagnata dal ticchettio dei tacchi sulle piastrelle di gres porcellanato.
«Ah! Non vedevo l’ora che arrivaste!» Le parole di Madame Grouviert inondarono l’ingresso dello stesso decoro con cui si era vestita e improfumata. Le sentii gocciolare sulle spalle, ancora pregne di balsamo per labbra ai fiori orientali e misurata cordialità. Mia madre le porse la mano e il sorriso a cui aveva tanto lavorato, ma Laurette li ignorò e stampò a entrambe tre baci sulle guance. Depositammo le giacche nel guardaroba e la seguimmo fino al primo androne. Si trattava di un enorme spazio bianco, spoglio e desolato, occupato da nulla se non dalla cascata di luce proveniente dalla parete di fondo: quest’ultima, come il corridoio, era costituita da un’unica e gigantesca vetrata con vista sul mare. Immaginai la stessa stanza bagnata dai riflessi del tramonto e rimasi impalata ad ammirare la solitudine che mi aspettava nella nuova casa: il vetro faceva da filtro tra me e la realtà e le mura da involucro ai miei sentimenti, proteggendomi dagli orrori e dalla bellezza da cui ogni giorno, fino ad allora, venivo contaminata. Un unico, rassicurante dettaglio aveva riempito la tela del mondo oscurandone il degrado. Presto i miei occhi si sarebbero abituati a quella cornice come alla scena migliore del mio film preferito, vista e rivista ininterrottamente finché ogni singolo pixel non combaciava perfettamente con le mie aspettative. Ora che il fuori era fuori, l’unica arma che poteva ferirmi era il passato, con le sue miriadi di lame, sornione.
«Una volta arredato sarà sicuramente meglio» osservò mia madre mentre frugava dentro la borsa. «Ecco, guardate» aggiunse esibendo una brochure quadrangolare di Visionnaire, «questo potrebbe essere il salone d’accoglienza.» Con l’indice indicava l’immagine artefatta di una lussureggiante stanza piena di mobili che sembravano essere usciti da una fiera del velluto nel cuore della savana. Da vomito.
«Ho deciso che rimarrà tutto così» dissi.
«E che diranno i tuoi ospiti? Una casa senza mobili, questa sì che è bella!»
«Prenderemo la cucina e il bagno. E un letto.»
Mia madre quasi svenne, Madame Grouviert sorrise di sbieco, come se la mia idea l’avesse piacevolmente colpita ma non volesse darlo troppo a vedere: «Cosa ne farai del resto dello spazio?»
«Lo userò per godermi la libertà.»
«E i vestiti? Dove metterai i tuoi vestiti e tutte le tue cose?» sbottò mia madre.
«Per terra.»
«Sei incredibile… Dove ci siederemo io e tuo padre quando verremo a trovarti?»
«Per terra. Sempre che io abbia voglia di ricevervi.»
Mia madre si appoggiò contro il muro prima che Laurette potesse avvertirla della vernice fresca. La sua faccia iniziò a gonfiarsi di rabbia e più ne entrava, più lei cercava di soffocarla, finché il botulino che aveva in corpo non esplose facendola afflosciare su se stessa come un palloncino bucato. Si ritirò che era sull’orlo del pianto. Madame Grouviert rise, questa volta con sdegno e senza remore e quel ghigno mi fece ancor più ribrezzo della deflagrazione di mia madre.
Non mi rimase che provare pena per entrambe.
«Grazie dell’incontro. Dica pure agli operai di lasciare tutto com’è. Anche i fori sulle pareti.»
di Caterina Migale
Illustrazione in copertina di Andrea Stendardi
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