Irina: Io qua sono.
Avrebbe dovuto trovarsi in uno spiazzo dismesso, dove una volta stazionava il circo Biscia che si alternava, a seconda della stagionalità, ad un luna park dotato di un paio di slot machine e un calcio in culo.
Bart: Sì ma dove?
Irina: Al solito posto.
Dall’altra parte della strada invece giace, alla stregua di un meme post moderno, un cimitero ed in fronte a quello una fermata dei bus, dove riceve Jasmin. Lei di solito lavora lì, ma a dire il vero, attende più che altro.
Bart: Io però non ti vedo.
Irina: Sto lavorando, tesoro.
Bart: Ti ricordo che mi chiamo Bartolomeo, ma meglio se mi chiami Bart.
Irina: Va bene, amore.
Ero transitato in quello spiazzo, ripetutamente; a volte lasciavo trascorrere pochi minuti tra un passaggio e l’altro, ma con lo scorrere delle ore, l’ansia si trasformava in paranoia. Estenuato e avvinto da quella ricerca, come ultima ratio, mi fermavo ai bordi della strada con l’auto accesa a spiare dallo specchietto retrovisore se ricomparisse la sagoma di Irina. A farmi compagnia vi era una luna esausta, indifferente allo sciabordio palpitante del traffico, mentre la sagoma della sua collega e amica, Jasmin, nella stessa posa sinuosa di sempre, attendeva.
Rincasavo in appartamento quando ormai il buio della notte aveva iniziato a scemare e con la stessa indifferenza con cui si susseguivano i giorni, ignoravo il degrado igienico del mio monolocale, mentre impegni e scadenze, venivano di continuo rinviati.
Dormivo, ma una parte di me, rimaneva impigliata nello stesso tragitto, e persino nei sogni Irina non c’era, mentre invece Jasmin attendeva, ma non una persona qualunque, lei voleva me, dissolvendosi però nel momento in cui avrei voluto abbandonarmi, senza energie residue, alle sue forme.
Nei rimasugli scongelati del giorno addomesticavo branchi disordinati di caratteri per una tesi che mi scivolava via dalla testa, ma non ero nemmeno più certo che quel guazzabuglio di teorie da riporto suscitasse in me ormai un minimo d’interesse. I miei pensieri, come segugi anarchici, non trovavano requie e tallonavano Irina con messaggi che clonavano sé stessi senza sosta, così ogni domanda rimbalzava contro le stesse risposte di sempre. Io sono qua. Sto lavorando. Va bene, Amore.
Mi avvitavo su me stesso, e con me le ore, i giorni, quindi i mesi. Una sera decisi di restare a casa, ma non riuscendo a prender sonno mi chiedevo con rassegnazione cosa mi restasse di Irina? Ben poco, ma forse più di quanto avessi mai potuto sperare e seguendo un ordine cronologico non esente da approssimazioni: avanzi di ricordi, come orme nella sabbia, un santino e dei microrganismi abusivi nelle mie urine.
Iniziamo dai ricordi di sabbia: lei scendeva da un’auto e attraversando la strada, gettava qualcosa nel cestino. Non mi era mai capitato di vederla prima: capelli lunghi biondi lisci, scrosciavano lungo la sua schiena distraendomi temporaneamente da un corpetto e da una gonna nera che cadeva docilmente sulle ginocchia. Era elegante nella postura e, anche se non era plausibile che lo fosse, lo era anche nell’abbigliamento. Le chiesi se fosse disponibile a salire in modo da poterla intervistare per la mia tesi intitolata “Dislocazione asimmetrica dei capitali, o semplice messa in scena?” e malgrado la sua pronuncia indicasse una certa dimestichezza con l’italiano, parve non comprendere di cosa stessi cianciando, ma sorrise comunque e mi chiese se intanto potevo, cortesemente, sbloccarle la portiera.
Al suo fianco mi sentivo sprofondare come se fossi seduto su di un materasso ad acqua e lei mi domandò semplicemente e dolcemente, «Andiamo?», quindi diedi gas, mentre si sistemava i capelli mirandosi allo specchietto, «ma non mi dovevi chiedere qualcosa… un’intervista tipo?», ed Io borbottai, «un fraintendimento, di certo»; annotai nel mio subconscio che avrei dovuto prestare molta attenzione con lei più di quanto fosse plausibile pensare, quindi le domandai indicazioni in merito alla segnaletica stradale da seguire.
Mentre ci stavamo rivestendo, pensai che finalmente ero diventato un uomo ed in un così breve lasso di tempo, tale da ridicolizzare i pensieri speculativi che avevano preceduto quell’evento. Scoprii anche, da lì a poco, in un momento di reciproco affievolimento delle difese, che le mancavano le onde, la salsedine e ancora di più i granelli di sabbia sotto i piedi quando, mano nella mano, correva con il suo bambino verso il mare placido dell’Albania.
In seguito mi regalò il santino: Irina credeva in un Dio misericordioso, pregava ogni giorno e non ne avrebbe mai tradito i comandamenti, almeno fino a quando il dottor Biscia gli spiegò che il suo bambino non riusciva a dire mamma e più in generale non proferiva parola per via di una sorta di ritardo nella crescita che gli avrebbe impedito di essere come gli altri bambini della sua età e che quindi avrebbe necessitato di cure. Il dottor Biscia, facendo leva su tutta la sua esperienza di uomo di mondo (pur non essendosi mai allontanato dall’Albania), ne deviò le lacrime lasciandole intravedere inusitate prospettive per il futuro; avrebbe solo dovuto rispettare le procedure, disse proprio così,« rispetta le procedure, Irina», quindi le rammentò che il pullman l’avrebbe portata oltre il confine, l’indomani mattina, nel mentre le porse una sorta di santino disegnato a mano su cui annotò il nuovo indirizzo di casa, le coordinate del suo ufficio e le procedure. Le suggerì solo di non ripetere gli stessi errori delle altre che erano state costrette a tornare casa, ma di fare come i professionisti, e aggiunse per farle forza, «vedrai in fondo è come essere pagata per salire su un taxi e non ti preoccupare, il più delle volte, le corse sono brevi».
Non mi regalò il santino, ma lo trovai riverso sul tappetino dell’auto: doveva esserle caduto quando si stava rivestendo o forse nel processo inverso, quando il rito di copula aveva avuto inizio. In ogni caso nel margine in basso c’era scritto che in caso di bisogno, urgente, e qualora non vi fossero state altre alternative, Irina avrebbe potuto recarsi a delle specifiche coordinate che erano peraltro riportate in un carattere del tutto minuscolo, leggibile con una lente d’ingrandimento.
Infine i microorganismi: il dottor Biscia mi spiegò che è una cosa normale, «non sai mai chi sale sul taxi e persino il destino ha dei buchi. Ti prescrivo queste, e anche queste. Solo prendile con metodo e ordine, come i professionisti, segui le procedure». Lo ringraziai, ma risposi che Io non stavo lavorando, ma studiavo ancora, per tutta risposta e non senza una certa esperienza, «bene, solo i veri professionisti non finiscono mai di imparare».
Ogni sera si ripete così la stessa sequenza: Io la cerco via messaggio. Lei asserisce di essere lì e (se non la vedo è perché) sta lavorando.
Quando recandomi in prossimità del suo spiazzo decido stavolta di scendere dall’auto e aspettarla in piedi: non voglio più rimanere confinato all’esterno di un mondo già ai margini, ma voglio diventare una scia di luce nella notte, sciamando nella materia organica, come in quella non organica.
Irina: Sei pronto, Amore?
Bartolomeo: Si, ma tu dove sei?
Irina: Io qua sono
Un’auto si ferma, il guidatore abbassa il finestrino e mi indica, con un cenno dello sguardo, di salire. Mi sento sollevato di non dover più aspettare e mi accomodo al suo fianco. Il tipo mi mette le mani sulla gamba, saggiandone la consistenza e contemporaneamente mi chiede come mai sono così taciturna? Mi guardo nello specchietto e scorgo il volto di Irina, che però manca di quella vivacità e di quella grazia che avevo cercato disperatamente ogni sera da un tempo ormai poco plausibile. Eppure, in bilico tra il feticista e il perverso, sono felice di aver ritrovato Irina, e le cose proseguono in maniera del tutto naturale: conosco la procedura, voglio essere come i professionisti, anche quando ci sono intoppi. «Facciamo come l’ultima volta», suggerisce Amore, «se puoi ricordarmi», Amore ride, «ti do un bonus e lo facciamo naturale come ci piace, poi sai che comunque lo faccio solo con te», «se il bonus è un po’ di più dell’altra volta (fai almeno il doppio), sai Amore mi potrebbe aiutare con gli studi», «ma non ti servivano per tuo figlio?», Amore ride, da solo.
Scendo dall’auto di Amore, butto qualcosa nel cestino, attraverso la strada e torno al mio posto.
Irina: Amore, dove sei?
Bartolomeo: Io qua sono.
Irina: Non ti vedo.
Dall’altra parte della strada Jasmin mi saluta, e decido di parlarle. Quando sono in sua prossimità vengo investito da un profumo che sa di essenza fruttata, ma miscelato con una prevalenza lisergica di lattice. Nel momento in cui le sono accanto la sua sagoma sinuosa non sembra più tale, ma assomiglia ad un vestito sgualcito in balia delle correnti. La guardo negli occhi per un breve istante, per poi voltarmi verso la strada, «Non c’è poi tanto movimento oggi, in fondo si va verso il fine settimana» , lei mi sorride lasciando intravedere una sfumatura di pietà mista a rimprovero, «il tempo non aspetta e le merci obsolescenti, come me, deperiscono sulle strade, lungo vicoli progressivamente sempre più bui: mi hanno consentito di rimanere in questo spiazzo solo perché non interessava ad altre, ma tu non sei Irina vero? Lei non avrebbe mai…», faccio seguire un silenzio di scusa e distolgo lo sguardo dal suo, ma stento comunque a comprendere per quale motivo rimanga al suo posto, malgrado tutto, «Tu cerchi Irina, Io aspetto, ci hanno lasciato altro da fare in questa vita?», quindi lei fa spallucce, un clacson ci riporta sulla strada. Un’auto si ferma, il finestrino si abbassa, quindi salgo.
Bartolomeo: Ho quasi finito, sto per tornare.
Irina: Dove?
Bartolomeo: Al solito posto, amore.
Mi rendo conto che la cosa più impegnativa è gestire il sali e scendi emotivo: non mi piace per nulla aspettare con lo sguardo fisso nel vuoto, e magari dover schivare eventuali commenti di cattivo gusto, quando poi sto con il cliente vorrei invece che la corsa si concludesse il più velocemente possibile, ma allo stesso tempo mi sento respinta, ferita ancora una volta. Quindi, ogni cosa, ricomincia daccapo.
Tuttavia c’era dell’altro, ci sono cose che mi attraggono in modo morboso al mio nuovo lavoro. Intanto le persone mi cercano, mi vogliono e malgrado le apparenze sono io, per una volta, a comandare il gioco. Inoltre mi piace rispettare le procedure e alla fine credo di essere diventata una discret(a) professionist(a). Tuttavia una parte di me anela a tornare alla vita precedente, rifiutando questa nuova condizione di marginalità, forse persino ad annoiarsi con la tesi e magari fare le prove di un futuro che con tutta probabilità sarebbe stato poco più di una deludente e dolorosa attesa.
Non mi rimane che chiedere aiuto al santino e sperare che quelle coordinate mi possano aiutare in modo urgente e definitivo. Come proiettato e respinto in un loop psicotico scopro che devo recarmi al cimitero; dove Jasmin aspetta, e dove invece Irina dovrebbe aspettare.
Bartolomeo: Dove?
Irina: Al solito posto, Amore.
«Lui ti aspetta», mi sussurra la collega e amica Jasmin, mentre attende.
Il luogo d’incontro coincide con una tomba di famiglia. Solo che al posto della foto dei defunti è stato installato un televisore lcd di ultima generazione. Lo sfondo dello schermo è colorato di blu, mentre al centro appare una scritta bianca tremolante, di una chiarezza sibillina:
RISPETTA LA PROCEDURA
L’ho rispettata.
«Tu si, ma lei no», mi ammonisce Biscia mentre sta calzando un paio di mocassini.
«Comodi?», ma è più una constatazione, «È sempre una questione di tempismo, devi essere in grado di cambiare prima che il mercato ti giri contro: è anche la regola base per l’intrattenimento per adulti, quando il tuo momento sta per finire, passa ad altro, è tutto così… liquido. Comunque non è detto che si possa, o che si voglia … cambiare, no?», il mento fine in combutta con uno sguardo che implica una reciproca stima inviolabile, non mi lascia altra possibilità che concordare, però non arretro, «ogni sera Irina sostiene di trovarsi in quello spiazzo, ma lei non c’è e vorrei ritrovar…», mentre muove i primi passi con le sue nuove scarpe, scuote la testa, «tu vuoi indietro il tuo cazzo, il tuo progetto borghese di vita ed in fondo lei è stata una piacevole ossessione estiva, ma nulla di più. Dimenticavo…», e cambia espressione costernato, come se lo avessi deluso, «avresti potuto almeno trovarti una scusa migliore per abbordarla, che non un’intervista per una tesi riciclata da qualche sedicente luminare… Facciamola breve. Tu ormai sei lei e per qualche imprevedibile ragione non te la cavi male con questo lavoro, pertanto puoi proseguire finché rispetti le procedure. Oppure ti potrei far tornare al giorno in cui l’hai vista la prima volta, ti ricordi i “capelli biondi che scrosciavano”? Ma se ti concedessi questa seconda opportunità, Bartolomeo, tu quale strada prenderesti? Torneresti sui tuoi passi come se nulla fosse? Oppure ad un certo punto avresti il coraggio di darle il futuro che si merita?», le sue pupille si incrociano con le mie, mentre le mie difese improvvisate affogano nel cromatismo celeste delle sue iridi ammantate di retorica. Non trattengono oltre le lacrime: comprendo così di averla persa e (forse) di essermi ritrovat(a).
«Quali procedure non ha rispettato Irina?», gli chiedo con un filo di voce.
«Con la sua amica e collega Jasmin, mentre lei attendeva, ha iniziato a chiamarti per nome», quindi sullo schermo blu torna a campeggiare la scritta:
RISPETTA LA PROCEDURA
Irina: Bart, Io qua sono
Bartolomeo: Adesso ti vedo.
di Marco Giono
Marco M. Giono avrebbe voluto scrivere sin dal 1977, ma ha dovuto rifletterci su per quattro decadi prima di iniziare. Ha pubblicato su Neutopia, l’inquieto e Pellegrini Editore.
Illustrazione in copertina di Andrea Innocenti
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