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Magnolia
Parole di Lorenzo Bianchi ~ Illustrazione di Beatrice Nicolini
Posted in Narrazioni on 4 Aprile 2020 28 min read
Un unico bagliore Previous Caravelle Portoghesi Next

Tra i sussurri che scivolano lungo i canali fuori dalla Deriva ogni tanto s’infila una storia. I pescatori la mormorano nelle notti senza luna, quando l’umidità aleggia sui canali e il fetore impesta gli animi di tutti quelli che svernano lungo il molo a fumare e a bere, aspettando che il chiarore del mattino lambisca il bastione della fortezza piantato nelle acque scure di fronte alla darsena vecchia. Gli sbarbatelli sghignazzano nell’udirla perché la considerano una storia ridicola. Scrollano le spalle impertinenti e scuotono il capo, sbruffoni, fino a che un qualche vecchio col viso crepato dalle rughe chiude loro la bocca a ceffoni. Allora i ragazzi sbatacchiano gli occhi storditi, si massaggiano le labbra tumefatte e riprendono il lavoro con le reti, muti, lanciando occhiate furtive allo sciabordio scuro dei canali.
È in notti come quelle che qualcuno dice di sentire un lamento gorgogliante e acuto, simile a un vagito disperato, perdersi nella nebbia tra i canali fuori dalla Deriva.
Dopo qualche settimana di lavoro i ragazzi cambiano in volto, si fanno più seri. In una manciata di giorni invecchiano di anni. Smettono di ridere. Qualcuno mormora tra sé e sé mentre traffica con le reti, e talvolta capita che lo si trovi impalato bordo molo, lo sguardo fisso nell’acqua, come sotto ipnosi. Allora uno degli altri pescatori va a scrollarlo delicatamente per le spalle e quello se ne torna a lavoro, distratto.
Anche Clara conosce quella storia, gliel’hanno raccontata molte volte quando era piccola e trotterellava lungo i moli a curiosare tra i paranchi e le carcasse viscide dei pesci impigliati nelle grosse reti. Solo che una sera, mentre puliva il bancone della Deriva dalla sputazza schiumosa dei clienti ubriachi, l’ha sentita raccontare di nuovo. A distanza di molto tempo dall’ultima volta. Un uomo è entrato a passo spedito nella cantina, ha sceso i tre gradini malmessi, e si è piazzato davanti al bancone con sguardo stordito. Indossava un paio di guanti e sulla testa aveva calcato un cappellaccio a tesa larga mézzo di pioggia. Clara ricorda ancora oggi di quanto tremassero le dita dell’uomo mentre provava a portarsi alle labbra il bicchiere pieno di whisky, e di quanto gli occhi spauriti fossero iniettati di sangue, e di quanto le borse nere sopra gli zigomi paressero sprofondare nella carne come ferite, e di quanto suonassero strane e oscure le parole pronunciate a mezza bocca, tra un singulto soffocato e lamentele di sventura.
Il racconto dell’uomo, all’incirca, se lo ricorda così.

Al teatrino tutti scattarono in piedi dalle loro sedute scassate, spalla contro spalla, per applaudire e fischiare. Lo spettacolo replicava da una settimana, ormai, e i posti in sala s’andavano riempiendo ogni sera un po’ di più. Quando la platea esaurì le poltrone disponibili la marmaglia dei moli che tutte le notti tornava a vedere lo spettacolo pensò bene di occupare anche le anguste balconate a semicerchio che erano chiuse da anni per lavori. Il proprietario del teatro, il signor Faustini, un ometto dall’aria nervosa che indossava sempre guanti di pelle provò a dissuaderli, balbettando frasi sconnesse mentre s’asciugava la fronte madida di sudore. Uno dei pescatori gli poggiò la mano sulla spalla, rassicurandolo, mentre con l’altra gli infilava una sardina umida giù per i pantaloni. Tra le urla e gli sghignazzi, l’ometto sgattaiolò via con il pesce tra le gambe, non prima di essersi rivolto, in tono piccato, verso la marmaglia di pescatori dicendo che se fossero caduti giù da quelle balconate lui non voleva responsabilità.
Il successo dello spettacolo era indubbiamente dovuto alla sensualità magnetica e alla bravura dell’attrice protagonista. Aveva due occhi cristallini che dalla platea sembravano riflettere tutti i colori e nessuno in particolare. La sua voce modulava dalla dolcezza più struggente ai toni acuti e isterici per le scene più intense. Tutti quelli che assistevano allo spettacolo la prima volta poi volevano tornare, e così facevano, inzeppandosi dentro l’angusto teatro, sera dopo sera, da quando la prima era andata in scena. Gli altri attori erano bravi, discreti comprimari, ma la ragazza emanava un’aura speciale, sopraterrena. Nessuno conosceva il suo nome (si faceva a gara nel tentare di indovinarlo, senza successo, anche se qualcuno mormorava che Faustini lo sapesse e se lo tenesse ben stretto) così in molti iniziarono a chiamarla la Musa.
Tra tutta la marmaglia che s’ammassava sera dopo sera, c’era un tipo un po’ particolare. Era un vecchio ricurvo col mento e le mascelle ispide che vestiva sempre in completo nero consunto dal tempo e dall’incuria, di quelli di velluto a coste che si vedono indosso agli uomini dell’inizio del secolo. Lo chiamavano il beccamorto, anche se nel quartiere non c’erano cimiteri. I più lo scansavano, inorriditi dall’odore di terriccio marcio che si portava appiccicato a dosso. Non proferiva mai parola, si limitava a sedersi in prima fila, tutte le sere. Lo trovavano sempre lì come se non avesse altra dimora. Il primo degli spettatori che arrivava a teatro ne vedeva la schiena scura sbucare in cima alla platea non appena scostati i tendoni polverosi d’ingresso. Nessuno voleva sedersi accanto a lui ma erano costretti a farlo, perché già c’erano pochi posti e la prima fila era molto ambita. Tutti quelli che riuscivano a godersi la rappresentazione dai pochi metri che separavano i seggiolini dal palco uscivano fuori dal teatro estasiati, gli occhi sognanti e le labbra semiaperte in un sorriso ebete. Così qualcuno pensò d’organizzare una specie di lotteria per la designazione della prima fila. I posti in palio erano dodici in totale più uno, il tredicesimo, occupato sempre dal vecchio in nero, che era stato tolto dal computo perché nessuno s’azzardava a rivolgergli parola. Qualcuno, tempo addietro, ci aveva anche provato. Ma non appena si arrivava a meno di un metro dal mento ossuto del vecchio l’odore di muffa prendeva forte alla gola e c’era qualcosa nel suo sguardo così calmo, serafico e tranquillo, che spegneva qualsiasi ardore. Il colletto della camicia nera che gli stringeva intorno alla gola metteva in risalto il colorito bluastro del collo dalla pelle flaccida. Sembrava che non gli scorresse sangue caldo nelle vene.
E così tra risse, assembramenti e lotterie lo spettacolo era arrivato alla terza settimana di replica. Alcuni attori avevano la voce rauca e vistose occhiaie appestavano i loro occhi. Erano stanchi e qualcuno iniziava a ciancicare le battute senza più tanta convinzione. Ma la ragazza no. Sembrava splendere ogni sera sempre di più, sorretta da una forza d’animo sconosciuta e da una passione incrollabile. Nello spettacolo i comprimari avevano un ruolo di nicchia, e grazie al costume necessario al camuffo richiesto dalla rappresentazione potevano fare a turno senza che gli equilibri di scena venissero corrotti. Non che a qualcuno degli spettatori interessasse. Avevano occhi solo per la Musa. L’unico problema era la spalla della ragazza, il protagonista maschile. Quel ragazzo aveva sì buona volontà e passione per il mestiere, ma una notte dopo l’altra era andato a ingrigirsi, la testa incassata nelle spalle, incurvato sotto al peso delle battute che non riusciva a rilanciare con lucidità a quelle della ragazza così leggere, serafiche e incalzanti nella loro precisione.
Alla fine della quarta settimana il ragazzo stramazzò sul palco. Sul finire del terzo atto gli si ribaltarono gli occhi e andò di faccia sul parquet dissestato dove rimase immobile a braccia larghe. La ragazza non smise di recitare e con naturalezza si lanciò in un monologo improvvisato per la chiusura d’atto. Quando il sipario calò tra le urla e gli applausi scroscianti della marmaglia in estasi, nessuno si accorse che l’ometto in nero s’era dileguato dalla platea. Faustini lo vide comparire dietro le quinte, con la solita flemma e il passo strascicato, mentre gli altri attori erano chini sul corpo del ragazzo. Mentre l’attrezzista (che era anche macchinista, suggeritore, scenografo) lo girava sulla schiena l’ometto calò in mezzo al capannello di soccorso come un corvo silenzioso. Afferrò con il pollice e l’indice il mento del ragazzo e gli voltò il capo a sinistra e a destra, poi con l’altra mano gli frugò sotto le palpebre e tutti videro le pupille vitree. Rialzandosi disse: questo è mio. Tutti fecero un passo indietro, bianchi in volto. Faustini annuì con la gola chiusa e con gesti stizziti delle mani sgomberò il palco. Il beccamorto si caricò in spalla il corpo del ragazzo come un sacco pieno di piume o paglia e se ne uscì dalla porticina sul retro, senza aggiungere altro. La ragazza se ne tornò nel suo camerino col volto adombrato d’una lieve tristezza.
Toccò interrompere la rappresentazione per alcuni giorni. La ciurma di fedeli spettatori non la prese benissimo, ma non c’era molto da fare. Fu la Musa a placare gli animi di tutti. Si fece trovare fuori dall’ingresso del teatro, vestita da scena, e con un sorriso dolce disse a tutti: la rappresentazione e il teatro piangono un bravo attore innamorato della recitazione. Lo spettacolo riprenderà non prima d’aver trovato un degno sostituto. I provini inizieranno fra sette giorni. Una settimana di rispetto per il nostro lutto. Non ci fu bisogno d’aggiungere altro. Tutti chiusero la bocca e se ne tornarono lungo i moli a occuparsi dei loro traffici.
Nei giorni successivi Faustini tentò d’organizzare dei provini per rimpiazzare l’attore. Come c’era da aspettarsi si presentarono cani e porci, morti e feriti, delinquenti e menomati. La Musa sedeva accanto al proprietario del teatro e supervisionava con volto imperscrutabile sule goffe manovre di tutti quelli che s’alternavano in tentativi imbarazzanti. Alla fine d’ogni provino Faustini le rivolgeva un’occhiata di sottecchi e lei scuoteva la testa con un sorriso educato. Il candidato sospirava dispiaciuto, si inchinava alla Musa e poi se ne andava via mogio con l’animo infranto. Alla fine del terzo giorni di provini, quando più o meno tutta la marmaglia del quartiere s’era presentata a udienza, arrivò un uomo. La stanzetta dove si tenevano i colloqui era un piccolo ufficio pieno di carte accanto al corridoio con i camerini degli attori, e dopo aver scartato un vecchio marinaio a cui mancavano alcune dita di entrambe le mani – ahr, s’impigliano sempre nelle reti e a volte capita che… zaac! aveva appena finito di spiegare facendo l’occhiolino a Faustini –, dei passi marcati risuonarono nel corridoio. La Musa sgranò gli occhi e si girò a guardare il muro dell’ufficio, seguendo l’adagio dei tonfi, come se una forza irresistibile avesse destato la sua attenzione. Entrò un uomo alto, magro e vestito con un completo nero pece. Aveva una carnagione diafana e due occhi grigi, profondi e luminosi, che si piantavano in due orbite scure sotto alla fronte ampia e liscia. Quando si mise a sedere davanti a loro, sulla seggiolina traballante, la lampada sulla scrivania sfarfallò un paio di volte e poi rimase ovattata, come se la l’incandescenza avesse deciso d’accucciarsi un po’ dentro la palla di vetro giallastra. Faustini sentì una stretta allo stomaco. Si schiarì la voce e si riavviò i capelli con le mani sudate, impiastricciandoli. Il ragazzo scostò le labbra in un sorriso e mise in mostra una fila di denti bianchissimi e regolari. Faustini aprì bocca per dire qualcosa, ma aveva la lingua secca e non fece in tempo a bagnarsi le labbra che sentì la ragazza dire, con un fremito della voce: lui. Faustini si voltò e vide la Musa con la bocca semiaperta, un leggero affanno a scuoterle il respiro, e il collo che pulsava al ritmo d’un battito irregolare.
Ahm, cara… sei… sei sicura? bofonchiò Faustini.
Sì, e stavolta la voce non tremò. Domani mattina ci saranno le prove dello spettacolo.
Il ragazzo si alzò lentamente, molleggiando sulle ginocchia e impiegandoci un po’ più del dovuto per tirare su il capo e fissare con intensità il volto della ragazza. Non c’è bisogno di prove. Domani sera andiamo in scena. E senza aggiungere altro uscì dall’ufficio. Faustini impiegò un paio di minuti a riproiettarsi la scena in testa. Gli sembrava di aver assistito a un sogno confuso. Un sogno che una volta svegliati si recupera a fatica perché scivola via come un’anguilla bagnata. Arianna…, disse, rivolto alla ragazza. Conosci quell’uomo?
Mai visto in vita mia, rispose lei. Poi si alzò, si rassettò il vestito, e fece per tornarsene in camerino. Quando uscì dall’ufficio la luce sulla scrivania sfarfallò un paio di volte, boccheggiante, poi si spense del tutto. Faustini fece scattare l’interruttore ma la lampadina s’era fulminata.
L’indomani mattina venne affisso accanto all’ingresso del teatro l’annuncio della ripresa dello spettacolo. La notizia si sparse tra i moli come il libeccio estivo e per il resto della giornata non si parlò d’altro. Alcuni erano curiosi di scoprire come se la cavasse il rimpiazzo, altri invece perduravano nei loro musi lunghi per essere stati scartati ai provini; in generale, però, la cosa che importava più a tutti era quella di poter tornare a vedere lo spettacolo ogni sera.
Così la marmaglia di fedeli si riversò a teatro con largo anticipo rispetto all’ora d’inizio. Come al solito, e senza che nessuno l’avesse visto arrivare, il beccamorto era in prima fila con le mani posate in grembo e la testa appena reclinata in avanti come sonnecchiasse. Tutti riempirono i posti a sedere e più scavezzacollo s’arrampicarono lungo le pericolanti impalcature laterali. Il baccano cessò di botto quando le luci si spensero e il sipario s’aprì con un fruscio.
Alcune ore dopo dal teatro uscì una folla disordinata di persone barcollanti. Si scontravano l’un con l’altro come inebetiti dall’oppio o dal troppo vino. In pochi riuscivano ad articolare le parole e tutti serbavano solo ricordi confusi e frammentari dello spettacolo. La sensazione diffusa e condivisa era che il ragazzo fosse stato impeccabile, perfetto per la parte, magnetico nella presenza scenica e ammantato da una grazia recitativa simile a quella della Musa. Tutti erano sicuri che gli attori avessero duettato alla perfezione ma, quando provavano a discuterne, nessuno riusciva a ricordare un momento preciso o una battuta in particolare. La sensazione di smarrimento durò per tutta la notte, poi l’alba ripulì le coscienze ottenebrate e al nuovo giorno ai moli tutto sembrava essere tornato all’umida quotidianità. Lo spettacolo riprese ogni sera, così com’era stato prima della disgrazia. Ogni sera il pubblico usciva dal teatro stordito e barcollante, e in molti spendevano la notte a ciondolare nei vicoli intorno prima che arrivassero i primi bagliori di luce a sgomberare il torpore.
Faustini non se la sentì d’assistere alla nuova rassegna. Durante la rappresentazione se ne stava dietro le quinte, in preda a un’agitazione che gli incasinava i pensieri e lo costringeva in un andirivieni ossessivo tra ufficio e camerini per tutta la durata dello spettacolo. Dal sottoscala sentiva i passi degli attori sul soffitto di legno, le urla e gli applausi dalla platea, il boato dopo la chiusura dell’ultimo atto. Il ragazzo s’era piazzato nel camerino numero 6, accanto a quello della ragazza, e dopo ogni serata salutava tutti con un sorriso educato ci si rinchiudeva dentro. Nessuno lo vedeva mai uscire dal teatro e Faustini una sera infilò il naso a curiosare e notò che s’era organizzato con un giaciglio di fortuna. Qualche sera dopo Arianna uscì dal camerino con una splendida magnolia bianca appuntata sul vestito di scena. Quando Faustini le rivolse un’occhiata divertita lei arrossì e senza guardare il camerino numero 6 mormorò qualcosa come: un regalo… s’intona col mio personaggio, e s’affrettò a salire le scale per l’ingresso in scena. Da quel momento la ragazza non si separò più dal suo fiore. Lo portava con sé durante la rappresentazione, e quando tornava in camerino lo riponeva con cura in una vaso accanto allo specchio, e quello le faceva compagnia mentre si struccava e si cambiava le vesti. Il ragazzo nel frattempo sembrava un’ombra. Molto discreto e professionale, sembrava sempre che fosse ovunque e in nessun luogo. Compariva alle spalle di Faustini come se non avesse peso, sorprendendolo nel bel mezzo delle sue scartoffie, oppure non si vedeva per tutto il giorno ma se ne udivano i pesanti passi risuonare nei corridoio delle quinte mentre s’agitava chiuso nel suo camerino. Una sera Faustini vide i due ragazzi accoccolati lungo lo stipite della porta del camerino di lei, stretti in una conversazione fitta e mormorata. Arianna aveva il viso rivolto verso l’alto e lo guardava con aria sognante. Il ragazzo le sorrideva con quei denti bianchissimi e gli occhi magnetici. Faustini, che li spiava come un gufo dalla porta socchiusa del suo ufficio, sentì una punta di fastidio nel petto. Dopo un po’ i due si salutarono e il ragazzo allungò un dito a carezzare la gota della ragazza che sorrise e arrossì, per poi tornare nel suo camerino a passo spedito. Il ragazzo si girò, e nel farlo lanciò una lunga occhiata verso l’ufficio di Faustini. Il proprietario del teatro sentì i capelli della nuca rizzarsi.
Fu più o meno in quel periodo che le persone iniziarono a svenire in sala. Con il contributo del ragazzo la rappresentazione s’era fatta più intensa e alcune scene erano di tale impatto che alcuni nel pubblico non reggevano l’emozione. A fine serata Faustini era costretto a fare la spola tra i seggiolini per schiaffeggiare i rintronati. Dopo qualche schiocco quelli sbattevano gli occhi, confusi, e con lentezza si alzavano barcollando. Un giorno la pesciaiola che teneva bottega nella via adiacente al teatro non reagì agli schiaffi di Faustini. L’uomo s’allarmò e provò a scuoterla più forte, ma non successe niente. Si guardò intorno, terrorizzato, cercando aiuto con lo sguardo e prima che riuscisse ad aprir bocca il beccamorto comparve accanto a lui. Il vecchio si curvò sulla donna, le annusò l’alito, le schiacciò il pollice sulla giugulare e poi disse: questa è mia, e se la caricò in spalla e uscì dal teatro.
Nel frattempo la ragazza finiva le serate in estasi. La compostezza lasciò posto a interpretazioni accalorate che le bagnavano le gote e il collo di sudore; la magnolia appuntata sul petto che brillava ogni sera sempre di più. Fece delle piccole modifiche al vestito di scena. Accorciò un po’ la gonna e si slacciò i primi tre bottoni sullo sterno lasciando intravvedere il pizzo del corsetto bianco che portava sotto. Ogni notte, dopo lo spettacolo, Faustini la vedeva entrare nel camerino del ragazzo. Dopo alcune ore usciva fuori madida di sudore e spettinata, lo sguardo fisso e la bocca semiaperta mentre barcollava dentro la sua stanza. A volte la trovava accasciata sul tavolo di fronte allo specchio immersa in un sonno profondo, la magnolia rigogliosa nel vaso a badarle i sogni, e allora Faustini si sentiva stringere lo stomaco, spegneva le luci e chiudeva la porta del camerino cercando di non svegliarla.
Le rappresentazioni continuavano senza sosta e ogni tanto il beccamorto si caricava in spalla qualcuno che tra il pubblico non s’era svegliato. Per la prima volta, alcuni posti in sala rimanevano vuoti. Faustini era in preda all’ansia e non riusciva più a dormire sereno. Aveva tentato, invano, di sospendere le repliche ma Arianna non ne voleva sapere e il pubblico tornava, e tornava, e tornava, lo sguardo della marmaglia sempre più spento, i passi strascicati, le bocche appestate da smorfie scimmiesche. Il ragazzo invece non sembrava fatto di carne e ossa. Non si accalorava mai, non si stancava mai, non sudava nemmeno. Ogni sera recitava come se non gli costasse nessuno sforzo, e Faustini iniziò a notare che la sua ombra s’allungava sempre di più sotto ai riflettori di scena. Dopo cinque mesi di repliche l’atmosfera era quella di un sogno. Faustini non dormiva più. Spendeva le notti in qualche ora di dormiveglia appestato da strane visioni che gli serravano la gola. Ma lo spettacolo continuava e le persone continuavano a tornare, ogni settimana, così come il beccamorto continuava, ogni tanto, a portarsi via quelli che non si svegliavano.
Arrivò il giorno in cui la Musa non riuscì più a salire sul palco. Faustini s’era accorto che la ragazza aveva provato a mascherare il gonfiore in modi fantasiosi, ma dopo un po’ a nulla erano servite gonne e fasce colorate strette al busto. Lo spettacolo non si fermò. Liquidati gli altri attori (che nel frattempo erano andati ad alternarsi nel corso dei mesi in un andirivieni confuso di cui Faustini non riuscì più a raccapezzarsi), il ragazzo iniziò a recitare da solo di fronte alla platea inebetita. Mentre Arianna ingrossava di corpo e smagriva di guance, emaciata e con le occhiaie come non dormisse da mesi, chiusa nel suo camerino, lui ogni sera montava sul palco e si lanciava in un monologo ininterrotto di cui Faustini sentiva solo gli echi, perché aveva giurato di non mettere più piede sul palco prima, dopo o durante lo spettacolo. E poi la gravidanza di Arianna lo faceva star male. Il ventre della ragazza si gonfiava ma il resto del corpo pareva sfibrato, consunto, come lo stelo di un fiore seccato ai primi freddi invernali. Alla fine del sesto mese di repliche la sala era riempita a metà, e il beccamorto faceva la spola su e giù tra poltrone e foyer con le spalle occupate. E lo spettacolo continuava. Faustini non riusciva a trovare il coraggio di andare a parlare con il ragazzo perché tutte le volte che si avvicinava al suo camerino sentiva un sapore di ruggine in fondo alla gola e veniva piegato in due da improvvisi conati di vomito. Ogni tanto la mente tornava lucida e si diceva di chiudere baracca e burattini, una volta per tutte, spinto da folate di coraggio che però scivolavano via in fretta così com’erano venute. Ma non riusciva a parlare con il ragazzo. Non ce la faceva proprio, era più forte di lui. E così lo spettacolo continuava, ancora e ancora, sera dopo sera, settimana dopo settimana.
Il bambino nacque sul finire del settimo mese in una notte di luna piena. Arianna partorì nel camerino e diede alla luce il bimbo stesa nel suo lettino tra asciugamani sporchi di sangue e i petali della magnolia sfiorita che si era tenuta vicino per tutta la durata del travaglio. Non volle aiuto, né permise a nessuno d’assistere al parto. Faustini si sorbì le grida e i gemiti fuori dalla porta del camerino, le spalle chine e gli occhi persi nel nulla. Alle prime luci dell’alba Faustini sentì la voce della ragazza che gli chiedeva un po’ d’acqua, e lui si precipitò a portarle una caraffa con un bicchiere. La trovò accoccolata sulla sedia di fronte allo specchio, le luci da trucco accese, che cullava un fagotto biancastro avvolto da un drappo di velluto scuro. Il volto della Musa era scavato, gli zigomi premevano contro la pelle che si era fatta secca e grigia. Lei teneva lo sguardo inchiodato sullo specchio, e Faustini vide nel riflesso un’ombra scura attraversarle gli occhi. Allora si avvicinò, posò caraffa e bicchiere sul tavolino e gettò un’occhiata al fagotto che teneva in grembo. Il bambino era bianco, slavato, non del tutto albino né del tutto sano di colorito. Non piangeva e la sua boccuccia era immobile. Le palpebre chiuse erano d’un rosso acceso che spiccava dal resto del biancore. Dal lievissimo tremore del corpicino sembrava che respirasse, ma il ritmo sfalsato e tremolante della carne tenera e molliccia fece rabbrividire Faustini.
Nelle giornate successive, mentre lo spettacolo continuava, Faustini andava a trovare Arianna nel suo camerino per portarle da mangiare e aiutarla col bimbo, anche se la ragazza si mostrava apatica e distratta; si faceva trovare sempre con il fagotto in grembo (e Faustini non lo vide mai, né prima né dopo, con gli occhi aperti, o sveglio, o che desse un qualsiasi segno di coscienza) e sbocconcellava di malavoglia il cibo, beveva un po’ d’acqua, e poi si rimetteva a sedere a guardarsi nello specchio con gli occhi pesti e le occhiaie scure.
Una sera Faustini scese in camerino e non la trovò. Terrorizzato la cercò dietro le quinte e fece persino una capatina fugace sul palco, dove il ragazzo imperversava come ogni sera, ma lei non c’era. E non la trovò neanche in platea a fine spettacolo, curiosando nervoso tra le poltrone mentre il beccamorto si caricava in spalla altri corpi e faceva in su e in giù dalla sala con aria mesta e una piega delle labbra che sembrava voler dire capita, che ci vuoi fare. Allora Faustini uscì a cercare Arianna e la chiamò a lungo, a gran voce, sgolandosi; s’infilò nei vicoli attorno al teatro e chiese di lei a tutti: marinari, pesciaioli, tagliaborse. Niente, nessuno l’aveva vista. Allora andò a cercarla sui moli e un vecchio pescatore che alitava grappa bollente da una bocca sdentata gli disse di aver visto – ne era sicuro! Sì sì, ne era proprio sicuro! – un angelo bianco scivolare lungo i canali, avanti e indietro in preda a un tormento silenzioso e quest’angelo aveva le sembianze di una ragazza, assomigliava alla Musa – l’aveva vista molte volte a teatro lui, eccome se l’aveva vista, se la sognava di notte e di giorno, sì sì! – solo che non poteva essere lei perché la bianca figura pareva una vecchia ricurva con la pelle del viso marcia e lo sguardo spento, e la Musa che conosceva lui incantava lo sguardo e scioglieva le budella con il candore delle gote. Faustini sentì il ritmo del proprio respiro incepparsi, e iniziò ad ansimare forte. Ebbe un mancamento e si accasciò contro il pescatore. Il vecchio lo sorresse con due mani robuste e callose, mormorando rassicurazioni colorite – lo sapeva, lo sapeva lui, quando si tira troppo col vino e si ciancica troppo oppio poi capita eh eh eh che le gambe ti fanno marameo e ’nsomma tanti saluti a tutti eh eh eh…
Rinvenne semisdraiato su una botte mentre qualcuno gli rovesciava liquore bollente giù per l’esofago. Faustini aprì gli occhi a colpi di schiaffetti e si accorse che sopra di lui c’erano il pescatore e un altro compare che si stavano già domandando cosa fare del suo cadavere se avesse tirato le cuoia proprio lì, in quel momento, tra le loro braccia. Faustini si rimise sulle gambe e spintonò i due, lanciandosi verso i moli nord. Fece tutto il giro dei canali ma della ragazza non c’era traccia. Allora si fermò davanti ai bastioni della fortezza e guardò l’acqua paludosa dei canali frangersi contro le palafitte muffite dove i barconi ormeggiati ciondolavano con gli scafi pieni d’alghe appiccicose, e sentì l’umidità della notte che gli ammosciava i capelli e gli bagnava le labbra screpolate sapida di tristezza. Se ne tornò al teatro con l’animo scuro e un groppo molliccio in fondo allo stomaco.
Trovò la platea vuota. Non era rimasto più nessuno. Il ragazzo non c’era, sparito chissà dove. Faustini percorse il corridoio centrale, imboccò la porticina per le scale che scendevano nei camerini e andò nella stanza di Arianna. La ragazza era adagiata sul letto, vestita da scena, i resti della magnolia secca appuntati sopra il cuore, con gli occhi chiusi – quasi dormisse un sonno profondo! – e le labbra grigie dischiuse in una dolce smorfia incantata. Accanto a lei un fagotto di panno scuro giaceva vacante. Mentre le guance di Faustini si rigavano di lacrimoni salati, sentì dei passi educati dietro di lui ma non si voltò perché sapeva già di chi fossero. Il beccamorto gli mise una mano sulla spalla, sospirò rattristito, poi disse, guardando il corpo della ragazza con occhi lucidi: questa è mia.
Faustini chiuse gli occhi e annuì tra le lacrime, poi singhiozzò: e il bambino?
Il vecchio si mordicchiò le labbra, guardò in basso, e rispose: per lui non posso fare niente.
Il beccamorto si chinò e prese in braccio Arianna come se fosse una fanciulla, si voltò, e scomparve oltre la porta dei camerini.

Imbambolata con i pensieri catturati nel ricordo, Clara non si è accorta che al bancone un uomo col volto crepato di cicatrici sbatacchia il bicchiere sul legno lercio per chiedere altro fuoco da versarsi in gola. Clara acchiappa una boccia di strappabudella e gli serve una dose generosa, l’uomo la ringrazia con un sorriso color liquirizia. A fine turno lei si toglie il grembiule e lo appende al gancio piantato nel muro accanto alla porta d’ingresso. Si riveste e va a farsi una passeggiata sui canali prima di tornare a casa. Ha la testa ancora imballata, sente le parole dell’uomo rincorrersi nelle orecchie come i cavalloni sulla battigia di un giorno ventoso. La notte è scura. La luna riposa e le stelle sono sbiadite dall’umidità sospesa sui canali che forma una cappa sfocata contro il cielo. I pescatori sono sparpagliati lungo i moli, smanaccando reti, le pipe di legno accese in bocca, la bestemmia sempre in fondo alla gola e lo sputo facile. Clara passa e saluta, tutti ricambiano con rispetto. Lei fa il giro largo, e si spinge fino ai moli nord, si ferma per un po’ a guardare la fortezza chiazzata di rosso che se ne sta piantata in acqua nello slargo del canale. Si volta, fa per andarsene, ma qualcosa le fa rizzare i peli sul retro del collo e per un attimo si blocca. Si stringe nel cappotto e s’affretta verso casa. Potrebbe giurare d’aver sentito un lamento gorgogliante e acuto, simile a un vagito disperato, perdersi nella nebbia tra i canali fuori dalla Deriva.

di Lorenzo Bianchi

Illustrazione in copertina di Beatrice Nicolini


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