Mi ero alzato presto, avevo fatto una doccia, mi ero rasato, vestito bene, pettinato; ero sceso al bar e avevo fatto colazione. C’era nebbia, le strade erano già piene di traffico. Avevo appuntamento per le nove: mi aspettavano alla BrownSchulz Inc. per un colloquio col direttore del personale. Mi ero candidato per un posto nell’ufficio export, e il mio curriculum era stato letto da qualcuno che aveva ritenuto adatto il mio profilo: una specie di miracolo. Mi avevano chiamato al telefono e sulle prime avevo pensato a uno scherzo, ma era tutto vero: mi avevano dato appuntamento per l’indomani mattina. La notte l’avevo passata senza dormire.
Gli uffici della BrownSchulz Inc. occupavano i tre piani più alti di un edificio di vetro e acciaio che ne contava una quindicina: il direttore del personale mi aspettava all’ultimo piano. Salii sull’ascensore pensando a cose importantissime e ridicole come le bollette, l’affitto, il nutrimento; la musica in diffusione nella cabina era qualcosa di sudamericano, piena di percussioni e strumenti a fiato. La mia bocca intanto si era seccata. Mi fecero accomodare in una sala d’attesa ampia e luminosa, con una grande vetrata inondata di sole e grossi condizionatori appesi al soffitto. Ero salito al di sopra della nebbia, che continuava a coprire le strade laggiù in basso come un mare di schiuma grigia. La signorina che mi aveva accolto era una ragazza di poco più di vent’anni, alta, luminosa anch’ella, con una coda di capelli biondi che fluttuava leggera a ogni suo passo: con un sorriso mi disse di accomodarmi, poi sparì dietro la porta dell’ufficio del direttore facendomi l’occhiolino.
Ero da solo. Potevo percepire ancora la musica, la stessa dell’ascensore, ricca degli svolazzi d’un qualche strumento che non riuscivo a individuare sopra un tappeto ritmico frenetico ma sommesso, come di qualcuno che carezzasse un tamburo invece di percuoterlo. Mi misi a riflettere sulle domande che avrebbero potuto rivolgermi: l’avevo fatto per tutta la notte sudando freddo, calciando via prima la coperta, poi il lenzuolo, infine il cuscino, rigirandomi su un fianco e sull’altro, restando per ore a fissare il pulviscolo fosfenico della penombra che disegnava forme oscure e mutevoli sul soffitto. Ero qualificato per quella posizione? Quante persone si erano candidate per quel ruolo? Sarei stato in grado di riuscire a mostrarmi sicuro di me, intraprendente, volenteroso, pronto al sacrificio, ambizioso? Sarei stato capace di inserirmi in un team di lavoro collaudato, di ritagliarmi un mio ruolo specifico, d’interagire, cooperare, coordinarmi, interfacciarmi, gareggiare e combattere all’ultimo sangue per scalare le gerarchie aziendali e ricavarmi una nicchia di rispettabilità e potere? Al momento, ciò che mi bastava era uno stipendio per non crepare di fame, per poter accendere i termosifoni, per non essere sfrattato dal mio monolocale in affitto. Se non altro, nella sala d’attesa non c’era nessuno oltre a me: era un buon segno?
Su un basso tavolinetto al centro della stanza c’erano delle riviste: sopra le copertine, uomini dal look inappuntabile sorridevano determinati a testa alta, mettendo in mostra orologi dorati, denti bianchissimi, capigliature di seta, sguardi glaciali. Mi passai una mano tra i capelli. La musica intanto s’era fatta ancor più sincopata, se possibile, mantenendo però quella grazia di carezza, quella sua imponderabile levità di cuscino: a occhi socchiusi cercavo di accoccolarmici dentro, come in un guscio, nella speranza di riuscire a svuotare la mente e prepararmi ad affrontare al meglio l’incontro. Avrei dato chissà cosa per bere un sorso d’acqua. Stavo per alzarmi e cercare una toilette quando la musica, raggiunto un suo apice di parossismo, sparì di colpo: sembrò che la luce dalla vetrata aumentasse d’intensità, come liberata dall’ingombro sonoro, e fosse risucchiata tutta all’interno della stanza. In quell’istante la porta dell’ufficio del direttore si aprì, e la ragazza bionda, col suo più bel sorriso, m’invitò a entrare.
La stanza era un parallelepipedo grigio, senza finestre, senza quadri o foto alle pareti. Dietro una lunga scrivania cromata erano sedute tre persone: un uomo anziano, un ragazzo sulla trentina, una donna di età indefinibile. Il ragazzo, che era seduto al centro, si alzò e mi salutò calorosamente, indicandomi la sedia sulla quale avrei dovuto sedermi, dall’altra parte della lunga scrivania. Era una poltroncina in pelle nera, imbottita e coi braccioli: mi sedetti trattenendo il respiro, dopo aver stretto la mano al giovane, la faccia contratta in un’espressione che mi sforzavo di far apparire cordiale. Poi il giovane, prendendo in mano dei fogli che aveva sulla scrivania – il mio curriculum vitae? – iniziò a parlare. Cercavo di comprendere ciò che diceva, annaspando sulle prime, boccheggiando quasi. Pian piano riuscii a focalizzare l’attenzione, dominando l’ansia a forza di grossi respiri: il giovane stava parlando del mio curriculum, diceva qualcosa a proposito di qualche mia vecchia esperienza lavorativa di un passato lontano. Davvero avevo svolto quella mansione? Lì per lì non riuscii a ricordare di cosa esattamente si trattasse. Ma il giovane ne sembrava entusiasta, mi diceva che un’esperienza del genere mi sarebbe senz’altro tornata utile alla BrownSchulz Inc. Pronunciava BrownSchulz Inc. come se dicesse qualcos’altro, esasperandone forse la pronuncia all’inglese, tanto che all’inizio non capii: pensai quasi d’aver completamente confuso indirizzo, giorno e ora dell’appuntamento, d’essere finito chissà come negli uffici di un’altra società.
Il giovane continuava a parlare: era lui l’unico a farlo, mentre la donna prendeva appunti senza mai alzare lo sguardo e l’uomo più anziano mi osservava tenendosi la testa con una mano sulla fronte e il gomito appoggiato alla scrivania. Poi iniziarono le domande. Stavo scomodo, mi rigiravo sulla poltroncina senza trovare una posizione soddisfacente, la bocca era ancora secca, ma nonostante tutto riuscivo a balbettare qualcosa con la voce tremante: mi sembrava che le parole uscissero sconnesse, prive di significato, ma il giovane sorrideva e annuiva, la donna continuava a prendere appunti, l’anziano non smetteva di fissarmi.
Andava bene, andava male? Che idea si stavano facendo di me? Sentivo una pressione sul gluteo destro, come se fossi seduto sopra qualcosa – pensai a un sasso, un ciottolo levigato di fiume. Il giovane domandava; io, in qualche modo, rispondevo. Ma c’era qualcosa, ci doveva essere qualcosa incastrato tra il mio fondoschiena e la seduta imbottita.
Avevamo parlato delle mie esperienze passate, di tutti i lavori che avevo fatto nella mia vita, dal più umile al meno vergognoso. Raccontai del volantinaggio per conto di una famiglia Paki, delle pulizie che facevo in un fast food di periferia, delle nottate in un ufficio umido e maleodorante a correggere bozze, del call center che nella mia memoria s’era trasfigurato in un lercio e chiassoso canile, di come ero riuscito a farmi assumere in una grossa ditta di trasporti pochi mesi prima che il titolare sommerso dai debiti decidesse di appendersi a una trave del magazzino con la sua stessa cintura, dell’azienda americana che mi aveva offerto uno smart work e che poi aveva smesso all’improvviso di pagarmi scomparendo nel nulla, dell’impiego che un mio vecchio compagno di scuola mi aveva offerto per compassione nell’azienda di suo padre, che dopo sei mesi era stato costretto a mandarmi a casa per mancanza di lavoro, o di fondi, o di qualcos’altro che non riuscivo nemmeno più a ricordare. Spostai il peso sul gluteo sinistro, per evitare la pressione di quell’oggetto che quando mi ero seduto non avevo visto, ma che ora mi dava un fastidio intollerabile.
Passammo a parlare della mia vita privata, delle mie ambizioni, dei miei sogni. Raccontai qualcosa a proposito della mia ex moglie, di un figlio che non vedevo da mesi. La donna dall’età indefinibile non smetteva per un attimo di scrivere su quel suo taccuino che teneva sulle ginocchia, dietro l’immensa scrivania. Non raccontai dell’affitto, delle bollette, delle cene precotte riscaldate nel microonde. L’uomo anziano mi puntava addosso quei suoi occhi inespressivi, non si distraeva un secondo. Dissi che avrei voluto un impiego che desse un senso alla mia vita, che riempisse il mio tempo e la mia mente: qualcosa per cui vivere e a cui dedicare ogni mia energia. Sorridevo come il più stronzo degli stronzi. Ma c’era quella cosa incastrata sotto il mio fondoschiena, un oggetto oblungo che mi faceva star male. Riuscii a infilare una mano dietro la schiena con disinvoltura, tra una frase fatta e l’altra, scoprendo i denti in un sorriso tra un termine tecnico standard e un inutile anglicismo. C’era davvero qualcosa, lo sentivo coi polpastrelli: era una cosa dalla forma più o meno ovale, forse a goccia, ruvida al tatto, della lunghezza di pochi centimetri. Sulle prime pensai davvero a un sasso: ma come ci era finito, come avevo fatto a non vederlo quando mi ero seduto? Continuavo a passare i polpastrelli sulla sua superficie ruvida, sulle sue piccole scalfitture radiali, sul suo bordo affilato e tagliente: mi ero sbagliato, quello non era un sasso. Mentre il giovane parlava entusiasta, mentre la donna scriveva senza sosta, mentre l’anziano mi guardava fisso, capii che si trattava senza dubbio di una cozza.
Cosa stava succedendo alla mia faccia? Cercavo di dominare i muscoli, il respiro, la sudorazione. I tre là dietro la scrivania sembravano non essersi accorti di nulla. Come ci era finito quell’oggetto sulla mia sedia? Di cosa si occupava la BrownSchulz Inc., in realtà? Fino a quel momento non avrei mai pensato che potesse avere a che fare con le cozze, o col cibo in genere. Forse era caduta a qualcuno durante la pausa pranzo; avrei dovuto dirlo al ragazzo che continuava a condurre l’entusiastico interrogatorio? Deglutivo a fatica, i miei occhi si spostavano continuamente dal ragazzo alla donna all’anziano: sapevano qualcosa, avevano intuito? Pensai all’ultima volta che avevo mangiato le cozze, ed erano passati mesi: possibile che mi fosse rimasta una cozza impigliata nei vestiti? Valutai le probabilità. Avrei fatto bene a tirar fuori quell’oggetto da sotto di me, o sarebbe stato meglio cercare di far finta di niente? Il ragazzo continuava a fare domande, io riuscivo a balbettare a stento, sentendo il sudore che mi scorreva lungo la schiena.
D’un tratto mi sembrò che la cozza iniziasse a muoversi: ero sicuro di avvertire una piccola vibrazione, una leggera pressione sul gluteo, come se il mollusco stesse tentando di aprire le sue valve. Avrei voluto piangere. Ma il ragazzo in quel momento si alzò in piedi, tendendomi la mano con un sorriso disarmante. Con un movimento rapidissimo afferrai l’oggetto, e stringendolo nel pugno me lo infilai nella tasca della giacca: era umidiccio, colloso. Badai bene di porgere al ragazzo l’altra mano. Poi la porta della stanza si aprì, e la ragazza bionda mi disse di seguirla; mi accompagnò fino all’ascensore e mi salutò col suo più bel sorriso.
Giù in basso, la strada era sempre invasa dalla nebbia. Una volta solo, non sapevo più cosa fare: mi toccai la tasca da fuori sperando di sentirla vuota, ma riuscivo ad avvertire una piccola protuberanza. Girai l’angolo e mi fermai nei pressi d’un tombino. Chiusi gli occhi, infilai la mano in tasca e raccolsi l’oggetto, soffocando un conato: lo sentii muoversi, vibrare, spalancarsi. Senza guardare lo gettai giù nel tombino, entrai nel primo bar, andai in bagno a vomitare, mi lavai le mani strusciandole bene per minuti e minuti, poi scappai a casa.
***
Mi offrirono il lavoro.
Una settimana dopo il colloquio la ragazza bionda mi chiamò al telefono per dirmi, con voce raggiante, che mi avevano scelto tra decine di candidati: mi proponevano un ufficio tutto per me, uno stipendio elevato, vari benefit. Tutti alla BrownSchulz Inc. aspettavano di rivedermi: avrei iniziato il lunedì successivo. Come avrei potuto rifiutare?
Sono anni che lavoro alla BrownSchulz Inc., e la mia vita è cambiata in meglio. La professione è quella che avevo sempre sognato, i miei colleghi sono brave persone, i superiori mi stimano, e credo che la ragazza bionda, quell’angelo sorridente, provi qualcosa per me. Ma c’è una cosa che ancora, dopo tutti questi anni, mi tormenta: quella musichetta sudamericana in ascensore, nelle sale d’attesa, negli uffici, dappertutto, sempre la stessa, sempre uguale, ce l’ho continuamente nelle orecchie. Chi l’avrà scelta? Perché continuano a diffonderla senza mai cambiarla?
Certe cose non hanno proprio senso.
di Diego Rossi
Illustrazione in copertina di Andrea Stendardi
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