– Mi hanno detto che ha fatto domanda per un posto di lavoro qui dentro.
– E le avranno anche detto che non hanno accettato la mia richiesta.
Annuisce e poi chiede:
– Non capisco Lapo: perché vuole restare qui?
Lapo si alza dalla poltrona, va alla finestra e fissa un albero dalle foglie gialle: è già autunno, pensa.
– Allora? – prova a richiamare la sua attenzione.
Ridestato Lapo fa per tornare al suo posto superando il lettino, poi ci ripensa e si sdraia. Di fronte a lui due cornici bianche: nella prima compare quello che, a detta del suo psichiatra, era lo studio di Freud. Nella seconda una foto in bianco e nero di un edificio che ha tutta l’aria di essere un orfanotrofio di un film horror.
– Mi piaceva stare qui a guardare queste immagini. Mi rilassavano in un certo senso. Perché poi abbiamo cambiato?
– Mi sembrava fossimo d’accordo – il dottor Ciardi si alza. Va alla scrivania, recupera una penna e una cartella piena di fogli. – Ma se vuoi oggi può restare lì.
– Si, credo che oggi rimarrò qui.
– Bene. Allora Lapo, non mi ha ancora risposto: come mai vuole lavorare da noi?
– Ho ripreso a fare quei sogni.
Il dottor Ciardi non replica.
– Sogno quel giorno.
Di nuovo un lungo silenzio senza domande.
– Sono sul divano e sento dei rumori provenire dal piano di sopra. All’improvviso mi ritrovo a salire le scale due alla volta. Spalanco la porta e c’è mia madre che mi guarda e ride. È felice. È sola nel sogno – si ferma conta fino a venti, poi riprende. – Ride tantissimo e ha le braccia spalancate. E poi vedo una versione di me bambino che sgambetta verso di lei. E quando sto per abbracciarla non c’è più. Al suo posto c’è del fumo.
– Quante volte ha fatto questo sogno?
– Un paio di volte – finge Lapo.
– Ne è proprio sicuro? – chiede perplesso il dottore. – Mi hanno riferito che negli ultimi dieci giorni, si sveglia sudato nel cuore della notte e devono somministrarle un calmante.
– Ma se sa tutto, allora perché me lo chiede?
– E perché lei mente?
Lapo scuote il capo e sorride sardonico.
– Siamo di nuovo a questo punto dottore?
– A quale punto Lapo?
– La smeeeeetta di faaare coooooosì – sbraita e si mette a sedere sul lettino. Ha un respiro affannoso, gli occhi sgranati e sta sbavando. Il dottore gli allunga un pacchetto di fazzolettini.
– D’accordo, Lapo. Parlerò chiaramente appena si sarà calmato.
Lapo scatta in piedi e va di nuovo alla finestra, la apre e prende grandi boccate. Si appoggia al davanzale con le mani e si sporge. Per una frazione di secondo entrambi elaborano lo stesso pensiero: il dottore si paralizza, teme di non saper gestire un suicidio in tempo reale. Sarebbe una soluzione a tutti i miei problemi, pensa invece Lapo. Distoglie quell’idea agitando una mano nell’aria, come a scacciare una zanzara fastidiosa. Richiude le ante della finestra e torna a sedersi sulla poltrona. Il dottor Ciardi fa un cenno con la testa, sollevato.
– Credo che lei abbia paura – Lapo non replica, lo guarda fisso e aspetta. – È entrato qui quando aveva quanto? dieci, dodici anni?
– Undici – precisa Lapo.
– E ora quanti ne ha?
– Diciotto domani.
– Ecco: sette anni fa è stato condannato, per omicidio doloso, al confinamento sicuro, perché minorenne, per quattro anni – il dottore inforca gli occhiali e prende a sfogliare la cartella. – È stato mandato in questa struttura per intraprendere un percorso di riabilitazione psicosociale duro e complesso “che si è rivelato utile ma non ancora completo” scrive lei stesso al suo avvocato, alla chiusura del terzo anno. Poco dopo riceviamo notifica, da parte del giudice minorile, del prolungamento della sua permanenza qui fino alla maggiore età. Giusto? – chiede conferma il dottore.
– Giusto – gli fa eco Lapo.
– Ora, per sette anni questa è stata la sua casa. E capisco perfettamente che per quanto doloroso sia stato all’inizio stare qui, è proprio qui che, ad un certo punto, si è sentito al sicuro. Ma Lapo – toglie gli occhiali e fissa lo sguardo nel suo – ha un padre e una sorella lì fuori che l’aspettano. Ha una vita da vivere – e scandisce quelle ultime parole. – Per quanto mi compete – chiosa – nella relazione finale scriverò che lei ha compreso i suoi errori e li ha pagati. Il suo cammino qui è finito.
– Non mi sento pronto – prova ad obiettare senza troppa convinzione.
– Noi continueremo a vederci nel mio studio privato. Ma da qui deve andar via.
Lapo abbassa lo sguardo, non parla e continua a scuotere il capo.
– Di cosa ha paura?
Lapo non risponde, ora si fissano in silenzio. Poi il ragazzo estrae dalla tasca posteriore dei suoi jeans un foglio piegato in quattro leggermente ingiallito. Lo distende e comincia a leggere:
“Ho bruciato mia madre una domenica d’ottobre di non so quanto tempo fa.
Avevo pianificato tutto: l’avevo convinta a fare un pic nic in un boschetto vicino casa. Avevo caricato nel porta bagagli una bottiglia di benzina da due litri, che non so perché, mio padre teneva in garage. Le avevo chiesto di stare in un punto isolato, così aveva parcheggiato in fondo ad una radura non lontano da un piccolo gruppetto di sedicenni che ridevano e fumavano. Poi, mentre stendeva la coperta sull’erba, ho preso una chiave inglese, che avevo posizionato sotto il mio sedile e bam, le ho dato un colpo per stordirla. L’avevo visto fare un sacco di volte nei film. A quel punto le ho versato la benzina addosso, ho ravanato nella tasca dei pantaloni e ho tirato fuori il mio fedele pacco di fiammiferi e ne ho acceso uno lanciandoglielo contro. È stato un attimo: il fuoco l’ha avvolta velocemente.
Sono stati i ragazzi a dare l’allarme. Mia madre è morta in ambulanza.”
– Ho scritto queste parole la mia prima notte in istituto e poi ho pianto – asciuga un paio di lacrime e poi riprende: – Pensi: mi mancava la mia mamma. La mia mamma che costringeva Anna, mia sorella, una bambina di otto anni a guardarla fare sesso con il vicino di casa.
– Perché Lapo sta raccontando una storia che conosciamo molto bene? – prova ad intervenire il dottore vedendolo agitarsi sulla poltrona.
Lapo scuote il capo e prosegue:
– È buffo: nessuno mi ha mai chiesto come mai avevo un pacco di fiammiferi in tasca. Nemmeno lei.
– Allora glielo chiedo ora, se sono ancora in tempo – dice il dottore preoccupato.
– Con Gianni, uno dei miei amici, andavamo in giro a raccattare rametti di ogni genere. Dovevano essere tutti piccoli, poi ne facevamo un mucchietto, li mettevamo in un recipiente di ceramica per non far incendiare ogni cosa e lanciavamo un fiammifero. Mi piaceva guardare bruciare il legno. Mi piaceva vedere come diventava altro: calore, fumo, cenere. La materia si trasformava in qualcosa di utile. Pensi: a scuola avevamo da poco imparato che la cenere veniva utilizzata per sbiancare i capi e il fumo per cuocere alcuni cibi e il calore, be’, lo sanno tutti: serve per scaldare.
Lapo si ferma e aspetta. Il dottore continua a tacere.
– Avrei voluto che anche lei diventasse altro e invece, quel giorno, mi sono spento con lei – con il dorso della mano asciuga gli occhi. – Ho paura di non farcela là fuori. Ho paura di fare ancora male e non voglio e di tutta questa mia consapevolezza, di cui lei tesse grandi lodi, be’ io non so che farmene.
Il dottor Ciardi si alza: stavolta è lui ad andare alla finestra. Il cielo è coperto e una tenue pioggerellina ha preso a cadere. Nel cortile i ragazzi continuano a giocare a calcio.
– Io non credo che lei si sia spento. Credo piuttosto che abbia sopito le braci, per restare in tema. No, sono d’accordo con lei: là fuori non è facile, e la sua storia di certo non lo aiuta. Ma mi creda, ad un certo punto non lo sarà nemmeno qui. Restare implica che la legna si bagni, o peggio, diventi ghiaccio e allora sì che diventerà ancora più difficile e ancor più doloroso affrontare il mondo.
– Ora mi dirà che non è facile per nessuno e che si ha sempre una scelta e bla bla bla e ancora mille altre volte bla – gli fa il verso Lapo mentre il dottore riguadagna il suo posto dietro la scrivania.
– Esattamente. Proprio così Lapo.
Il ragazzo stringe i pugni, poi si accascia sulla poltrona: resta in quella posizione per un tempo che pare interminabile: nemmeno da lì vuole schiodarsi. Intanto il dottore ha preso a scrivere, a sfogliare carte, a leggere appunti. Lapo dopo una buona mezz’ora si decide: si tira su, ripiega il foglio e lo rimette in tasca. Bofonchia un “allora, vado a preparare le mie cose”. Il dottore, senza nemmeno alzare gli occhi su di lui, gli porge un foglietto con l’indirizzo del suo studio e la prescrizione di nuovi ansiolitici.
– Ci vediamo a quell’indirizzo tra una settimana.
Il giorno dopo il dottor Ciardi è ancora lì a leggere il dossier di un nuovo ragazzo che prenderà il posto di Lapo in quell’istituto. Sorseggia caffè amaro. Fuori oggi splende il sole, il cielo è aperto. Un rumore proveniente dalla finestra lo distrae: schiamazzi da sotto. Alza la testa e vede una piccola colonna di fumo.
– Angela! – chiama la sua segretaria – che diavolo sta succedendo?
Si affaccia: c’è un gruppo di ragazzi che intonano “tanti auguri” a Lapo. Sono tutti in cerchio attorno ad una pentola in cui crepitano rametti e foglie. Lapo tira fuori il suo foglio, alza lo sguardo verso la sua finestra: non sembra stupito di vedere il dottore lì che li guarda. Il ragazzo apre il foglio, lo valuta un’ultima volta e poi lo getta nel fuoco. Qualcuno applaude.
Il dottor Ciardi sorride e Angela, che è dietro di lui, lo sente bisbigliare:
– Buon compleanno Lapo.
di Francesca Gentile
Francesca Gentile, nata a Taranto nell’86. Ho studiato scienze biologiche a Firenze (città in cui attualmente vivo). Mi occupo di controllo qualità in un’azienda farmaceutica. Leggo molto (mai abbastanza) e vorrei scrivere quanto leggo. Ritardataria cronica (lamentosa pure).
Illustrazione in copertina di Beatrice Nicolini
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