Una barchetta giocattolo di plastica gialla sguazzava nella vasca da bagno. O forse navigava tra gli interstizi delle mattonelle del pavimento azzurrine.
L’oscurità calava nella stanza. Io planavo sulla barca dall’alto e, mano a mano che le piastrelle si avvicinavano, la barchetta diveniva sempre più grande. La superficie del pavimento adesso brillava, come accarezzata dai raggi provenienti da fonte di luce misteriosa, e sotto i miei occhi ondeggiava, liquefacendosi.
Il freddo e l’umidità penetravano le mie ossa. E quelle sensazioni non si dileguarono nemmeno quando alla fine vidi sorgere il sole. La luce invase l’ambiente. Non mi trovavo più nel bagno. Fluttuavo sulla superficie piattissima di un lago circondato su ogni lato da rilievi rocciosi. La barchetta adesso era un’imbarcazione di legno dipinta di bianco, una di quelle dalla vernice scrostata che avevo visto una volta nella cartolina di un villaggio di pescatori maltesi.
Non so come potessi ascoltare il suo lento sciabordio nell’acqua scura: ero lontana forse chilometri e la barca mi appariva poco più di un’ombra contro l’orizzonte. Il paesaggio mi era familiare: quella era la gita sul lago Trasimeno, dolce ricordo di dodicenne con la mia famiglia. Ma quel sole al tramonto non apparteneva a quella giornata, era invece lo stesso che avevo visto, molti anni più tardi, da un terrazzo panoramico nella costiera amalfitana, con il suo calore accogliente e la sua luce gloriosa.
Mi resi conto che la presenza della barchetta nel centro del lago costituiva un elemento illogico in quello scenario: non c’era nessuno a guidarla. O forse c’era. Sì, era una bambola, una bambola tutta bianca. Non si trattava di un bambolotto, aveva arti più allungati, come quelli di un adulto, ma dalle estremità arrotondate e prive di dita. Non aveva occhi, né vestiti, solo una testa sferica e cieca. Non avrei potuto riconoscerla fra quelle con cui avevo giocato da bambina, ma avevo la consapevolezza che fosse mia da molto tempo.
Era senza vita e nonostante questo la sapevo in pericolo. Stava per scivolare e il suo corpo morto sarebbe sprofondato senza appello nell’oscurità della conca d’acqua. Dovevo raggiungerla. Dovevo aiutarla.
E ci stavo già riuscendo: mi spostavo verso di lei a gran velocità, senza sentire alcuno sforzo. Continuavo a percepire i miei arti immobili e pesanti e ascoltavo il battito del mio cuore rallentato.
Tuttavia non potevo arrivare fino a lei. Avevo un appuntamento che non avrei potuto rimandare. Un senso di frustrazione turbò la mia leggera fluttuazione nell’aria umida della sera. Mi sentii trascinare verso la sponda più vicina. La barchetta rimase abbandonata.
Quando misi i piedi sulla riva del lago il senso di colpa mi fece promettere che sarei tornata a salvarla. Sulla spiaggia, sullo sfondo di alberi esotici dai tronchi sottili, c’era una pista da ballo di sabbia. Forse era la Polinesia. Sì, non c’era altra spiegazione.
La lezione di danza che si apprestava a cominciare era il mio appuntamento. Era importante partecipare. Forse avrei imparato qualcosa sui segreti alieni di quel luogo e sui ritmi della natura, o magari qualcuno sarebbe venuto a giudicare le mie qualità di ballerina. Ma non mi era possibile prenderne parte davvero, non col pensiero della bambola che scivolava dalla barca e si smarriva tra le onde.
Così mi feci spettatrice e attesi, seduta su uno scalino di legno dello stabilimento balneare. Dovevo essere ad Ostia. Il tratto di spiaggia spianato e adibito a sala da ballo era vuoto. Una donna muoveva le braccia al limite dello spazio, senza dare l’impressione di seguire alcun ritmo o disciplina. Eppure avvertivo un solenne rispetto per quei movimenti accidentati e goffi.
Sembrava fosse lì per insegnare a qualcuno, ma nessuno imparava. Solo io la osservavo, senza capire perché, cercando di cogliere il suo mistero. Doveva essere un’informazione vitale se mi aveva fatto abbandonare e dimenticare la mia missione. Alle sue spalle potevo ancora vedere la minacciosa ombra della barca nascondersi ai piedi della montagna sulla sponda opposta del lago.
La danza della donna non era terminata, ma io ad un tratto sentii di poter andare. Mi diressi verso la battigia e immersi i piedi nell’acqua. Ero vestita, però, indossavo un cappotto di un intenso verde acido. E non fluttuavo più. Anzi affondavo.
Le onde, sempre più alte, mi spingevano dall’alto al basso, premendo sulla testa e sui vestiti per risucchiarmi verso il fondale. Riuscivo a percepire i loro pensieri, a leggere l’intento che perseguivano con smisurata forza di volontà. L’altra sponda del lago era scomparsa. Ero in mare aperto.
L’Oceano non mi avrebbe fatto del male, io sapevo nuotare. Ma la bambola non si sarebbe salvata. La vedevo adesso: era un manichino a dimensioni naturali e indossava un vestito rosso. Continuavo ad avanzare.
E continuavo a non sentire fatica, le mie membra erano sprofondate in uno stato di torpore. L’angoscia però cresceva: la barca si avvicinava sempre di più, ma non potevo raggiungerla. Una tartaruga nuotava vicino a me. Che assurdità!
Non vedevo più nulla, le onde sempre più alte impedivano ora non solo il mio avanzamento, ma anche la visuale. Tutto era freddo e umidità.
Poi, d’un tratto, riuscii a rivedere la barca e il manichino. Solo che adesso era una persona, una ragazza della mia età che, dentro lo schermo di un televisore, cadeva nella pozza di luce del lago e annegava. Era il mezzogiorno e lei concludeva così la gita con la sua famiglia.
La madre adesso piangeva accanto a me, nella sala di aspetto di un’istituzione non meglio definita, forse una scuola o un ospedale. Ero lì perché la ragazza era stata mia amica e adesso era morta. L’assenza di dolore e la sensazione di indifferenza che provai mi accompagnarono come un leggero malessere per tutta la giornata, anche quando alla fine fui sveglia.
di Cecilia Cerasaro
Cecilia Cerasaro è una ventiduenne romana appassionata di scrittura creativa fin da piccola. Studia Lettere all’Università di Tor Vergata, ama il teatro e qualche volta si diletta a recitare. Nel 2020 è tra i finalisti del premio di narrativa Storie Inaspettate della FITeL.
Illustrazione in copertina di Andrea Innocenti
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